martedì 19 febbraio 2013 - Traiettorie Sociologiche

Miseria e nobiltà. Crisi, welfare e aiuto sociale

 

La crisi economica attuale, iniziata cinque anni fa come crisi finanziaria globale e poi per alcuni paesi, tra cui l'Italia, trasformatasi in crisi del debito pubblico, ha portato all'adozione di politiche di riduzione della spesa pubblica che stanno cominciando a manifestare i loro drammatici effetti sul welfare state. Accade, quindi, che nel momento in cui crescono i bisogni di assistenza sociale, soprattutto perché si riducono le opportunità di occupazione e di reddito, le politiche di austerità comportano il sacrificio della spesa sociale, riducendo significativamente anche il livello dei servizi esistenti. È questo il contesto al quale si riferisce il saggio di Fabio Folgheraiter dal titolo Sorella crisi. La ricchezza di un welfare povero (Erickson, Trento, 2012), ma a partire da una prospettiva controintuitiva che assume la “Grande crisi” – questa l'espressione utilizzata per questo periodo di recessione economica – come opportunità per ripensare la logica del welfare state e le pratiche socioassistenziali.

Nel dibattito politico e scientifico sulla crisi attuale del welfare si sottolinea prevalentemente, infatti, il calo delle risorse economiche investite nelle politiche sociali, ma ciò apre un processo che per Folgheraiter è anche un'opportunità, se consente di ripensare al significato profondo del lavoro socioassistenziale, mettendo da parte la dimensione, pur rilevante, delle risorse economiche.

Il saggio, infatti, parte dalla constatazione che “la Grande crisi con la sua azione scardinante ci potrebbe aiutare a compiere finalmente le riflessioni cruciali e poi a incamminarci verso le decisioni strategiche atte non solo a difenderci in qualche modo dagli effetti distruttivi di una povertà incombente bensì anche a farci avanzare e migliorare forse inaspettatamente, contro ogni pessimismo” (pp. 9-10). Quindi la riflessione è orientata ad elaborare una prospettiva sul come e in quali condizioni poter uscire dalla crisi, oltre che descriverne i caratteri. Questo per Folgheraiter significa soprattutto ragionare sul come se ne esce in pratica, ovvero su quali sono le metodologie, oltre alle mete da raggiungere. Per questo il saggio è specificamente orientato alla pratica sociale, come l'Autore stesso dichiara quando esplicita che la sua ricerca è stata finalizzata a trovare le “parole buone per un cambiamento reale”. Si tratta di un'interpretazione della ricerca sociale che richiama le sue finalità, in accordo con l'ispirazione weberiana, scrivendo “«scienza» non è solo speculazione astratta e distaccata, ma anche razionale riflessione metodologica incorporata nell'agire umano” (p. 15).

La logica del denaro ha permeato lo sviluppo del welfare e anche il dibattito sulla crisi attuale è schiacciato sulla dimensione economica, sia quando le politiche sociali sono orientate da concezioni neoliberali, sia quanto invece, prevalgono concezioni socialdemocratiche. La preoccupazione per le risorse economiche è comprensibile, perché la crisi sottrae risorse economiche al welfare e ciò mette in crisi le politiche tese alla redistribuzione e all'eguaglianza di opportunità di vita. Ma, osserva Folgheraiter, in questo modo si guarda soltanto ad un pezzo del welfare. È vero, infatti, che quest'ultimo ha una funzione fondamentale nel garantire la “sopravvivenza” delle persone e in questo ambito il denaro svolge una funzione immediata nel risolvere le problematiche per le quali è impiegato. Si tratta di quello che possiamo chiamare il “welfare dei diritti esigibili” che deve provvedere alle risorse per vivere e che, secondo l'autore, impegna necessariamente l'attore pubblico. Si tratta, infatti, di un carattere fondamentale delle società civili: “Ogni società che ami dirsi civile è tale in quanto possiede un sistema istituzionale, vale a dire dei meccanismi impersonali di rango pubblico che […] scattano in automatico per riequilibrare scompensi nel possesso delle ricchezza materiale ripristinando la giustizia, evitando così che la gente debba andare a chiedere la carità mettendoci la faccia di persona” (p. 21).

Ma il welfare non si esaurisce in questo, perché un'altra e più sofisticata funzione è quella di sostenere il senso del vivere e per questo fine il denaro è importante ma ancillare, perché le funzioni da svolgere sono di natura relazionale e richiedono altri tipi di risorse. In questo modo Folgheraiter propone una visione del welfare che va oltre la semplice funzione di sopravvivenza per porsi in una prospettiva che etichetta come di “welfare della felicità”, per la quale non esiste una correlazione diretta tra l'aumento dei soldi impiegati nelle politiche socioassistenziali e l'aumento del benessere. Bisogna allora comprendere che esistono altre risorse, immateriali, che abbinati al denaro portano al benessere: sono le risorse che riguardano le relazioni sociali che si costruiscono nelle pratiche socioassistenziale.

Questa è la dimensione più pregiata del welfare: il capitale sociale di beni relazionali che sono capaci di curare il senso del vivere. Tale prospettiva assume rilevanza cruciale scendendo al livello delle pratica socioassistenziali, quando cioè si pone il problema di comprendere il senso del lavoro di assistenza, ovvero di cosa significa prendersi cura dei bisogni delle persone. L'idea di Folgheraiter è molto chiara: le pratiche socioassistenziali consistono nel creare relazioni di aiuto in cui l'operatore entra in rapporto con i bisogni di una persona e trasforma i disagi di quest'ultima in suoi problemi da risolvere.

Questa concezione si pone in relazione diretta con la più generale teoria relazionale di Pierpaolo Donati e la sua prospettiva di welfare relazionale e sussidiario. Il nodo centrale sta nella dimensione relazionale dell'assistenza che consente di comprendere che costruire relazioni sociali intenzionate al fronteggiamento concreto del disagio rappresenta l'opportunità per il superamento del welfare industriale, abbandonando idee di soluzioni mercantiliste, ma allo stesso tempo senza cadere nelle ideologie tecnocratiche. Come osserva Folgheraiter, infatti, gli attuali servizi sociali si basano sul mito della tecnologia dell'umano, intendendo con tale espressione “tutto ciò che promette di poter manipolare l'uomo come tale, di poter fare uso strumentale di un essere umano a noi estraneo al fine del suo bene” (p. 48); questa mitologia ha però sempre più oscurato il fatto che i servizi socioassistenziali non agiscono sulla materia psicofisica (almeno non prioritariamente), ma si riferiscono al senso dell'umano, all'esperire umano.

Qui è opportuno riprendere il senso dell'aiuto sociale e la distinzione rispetto alla manipolazione della tecnica. L'aiuto prevede un'interferenza che l'operatore produce entrando nella vita della persona presa in cura e alla quale si accompagna per affrontare insieme i suoi disagi; questo orientamento esclude che l'operatore sia in grado di produrre autonomamente, grazie alla tecnica terapeutica, un risultato riferito alla vita della persona presa in cura. Per questo l'intervento nel sociale non può essere inteso come “tecnologia”. È invece necessario liberarsi del paradigma tecnico dell'assistenza, per valorizzare le pratiche sociali: pratiche povere, ma più coerenti con il senso dell'aiuto. Il solo sapere scientifico è infatti incapace di dare significato all'agire umano.

La ricerca dell'efficienza economica e della “tecnologia dell'umano” hanno prodotto una industrializzazione-burocratica dei servizi sociosanitari, riducendo la dimensione umana della pratica assistenziale che è, invece, il terreno fertile su cui elaborare un nuovo paradigma orientato al recupero del “senso del vivere”. Questo è il terreno su cui si apre la proposta di Folgheraiter di sviluppare pratiche socioassistenziali relazionali, intese come “terapie che non attaccano per via diretta una patologia, ma si agganciano morbidamente all'umanità delle persone, cioè ai loro saperi profondi e alla loro voglia di condurre una vita buona” (p. 67). Non è la tecnica che fa la differenza, ma la relazione tra l'operatore e il paziente, quando in particolare si genera una sinergia tra i due attori che consente che le qualità pregresse dell'operatore aggancino le qualità emergenti della persona curata, per consentire in ultima istanza l'autodeterminazione consapevole dell'assistito.

In definitiva Folgheraiter ribadisce la necessità di un welfare pubblico come strumento per “poter costruire alternative di vita accettabili, a fronte di condizioni di partenza dolorose e a volte tragiche, [come] primario «diritto» che i cittadini potrebbero rivendicare in un ben organizzato stato del benessere” (p. 101). In più, però, si evidenza che le risorse economiche da sole non bastano per raggiungere il benessere e tanto meno lo sono le attuali politiche di razionalizzazione e di efficienza. Sarebbe, invece, auspicabile una riflessione sull'essenza del welfare, in particolare alla logica sociale delle relazioni di aiuto, valorizzando le pratiche socioassistenziali, tenendo a mente che il welfare “è un'elaborazione artigianale portata avanti insieme” (p. 103).

di Francesco Pirone




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