venerdì 21 febbraio 2020 - Giuseppe Ottaviano, Stranieriincampania

Migrant Syrens: il racconto delle donne migranti attraverso l’arte

Raccontare l’identità contemporanea delle comunità di donne migranti è al centro del progetto Migrant Syrens dell’artista napoletano Franz Cerami che, attraverso le sue opere, sperimenta un nuovo modo di narrare le persone e le loro storie. 

Cerami è docente di Retorica e Storytelling Digitale presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e contemporaneamente porta avanti diversi progetti artistici che fondono l’arte più tradizionale, come il disegno e la pittura, con la tecnologia. Da questo connubio nascono installazioni suggestive che l’artista porta in giro per il mondo, come la sua installazione Remix Portraits proiettata a Yerevan, su invito dell’Ambasciata d’Italia in Armenia.

Stranieriincampania ha incontrato Franz Cerami a Casa CIDIS per comprendere come nascono le sue opere, in particolare Migrant Syrens e Lighting Flowers

Dove prende le idee per i suoi progetti?
Come nascono le idee nessuno lo sa, ma fingendo che si sappia, posso dire che sono sempre rimasto molto toccato da questa vicenda che riguarda le migrazioni. Mentre è chiaro che crea sofferenza in chi emigra e in chi ha sensibilità a me, che ho una compagna brasiliana, ha sempre meravigliato come l’atteggiamento verso i migranti fosse di due tipi: o il migrante visto come nemico davanti al quale si deve erigere un muro, una barriera per non farlo entrare; oppure il migrante come un povero che va soccorso in quanto tale e a cui bisogna dare un po’ di aiuti di prima necessità. Invece, secondo me, manca il terzo che, usando un termine napoletano, si chiama acchiappanza che se uno lo legge in senso più ampio significa la curiosità verso l’altro, cioè la curiosità di sapere chi è l’altro, che sapori, che profumi, che colori, che idee di società ci sono. Diciamo che non necessariamente ci devono piacere, anzi molto spesso non ci piacciono, però la cosa intrigante è proprio quella di poter mischiare le cose. Non si tratta di definire una cosa meglio di un’altra, il kebab meglio della pizza, non è questo il senso. Per esempio a me il kebab non piace, però mi intriga l’idea che quando salgo per i Quartieri Spagnoli, accanto ai profumi che ho sempre sentito, trovo profumi diversi, perché mi incuriosiscono e mi fanno pensare “ma chi c’è?”, “ma come si fa? chi sono queste persone? Ah guarda sono gli stessi che giocano a cricket dall’altro lato di via Toledo”. Così si scoprono dei mondi ed è molto più interessante di parlare sempre e soltanto della partita di pallone e di pensare che la cosa più bella della vita sia lo spaghetto a vongole.

Come nasce invece l’idea di Migrant Syrens?
Ho provato a fare dei ragionamenti su chi siamo, come siamo nati e ad un certo punto ho fatto una riflessione molto semplice: noi napoletani siamo figli della sirena Partenope, la prima migrante della storia della letteratura, una donna che viene da fuori, che non vende collanine, non violenta, non si prostituisce ma fa una cosa molto bella: fonda una comunità, la nostra comunità. E quindi la nostra è una comunità che nasce da una straniera e quindi è quella più giusta per raccontare che le comunità nascono dall’innesto con altre comunità, persone, culture, non sempre belle, non sempre buone ma non è quello il punto. C’è una poesia di Rodari che mi piace molto e si chiama “Le storie nuove”, dove racconta la storia di Bianca Nave e del Matto con gli stivali, e in pratica dice che con una storia vecchia si può costruire una storia nuova. Piano piano ho iniziato a collezionare questi spunti e poi ho conosciuto Angelo e Tina, una coppia stupenda di Ponticelli che ha un negozio di frutta e verdura a vico Lungo Gelso e che ogni settimana fanno un laboratorio di cucina rivolto ai migranti. Lì ragazzi di tutte le etnie, culture e religione si incontrano per cucinare, ognuno contribuisce in un racconto corale ad un progetto. A volte succede che come in un film, arriva il camion dell’immondizia e il signor Ciro che guida il camion, si affaccia e chiede se è pronta la pasta e Hamed gli porta il piatto di pasta, così fa pure la signora che cala il paniere e improvvisamente arriva gente. I ragazzi se ne vanno avendo collaborato ad un progetto comune insieme ai napoletani, in un progetto di integrazione dove questa parola fredda “integrazione” non si pronuncia mai, ma nei fatti c’è. E ognuno torna con qualcosa in più.

Quindi ha deciso di raccontare delle storie di persone?
Ho pensato che mi sarebbe piaciuto raccontare queste storie. Anche se non sono cattolico, devo dire che Papa Francesco dice una cosa molto interessante cioè che bisogna avere curiosità verso l’altro. Questo secondo me è la chiave di tutto, perché curiosità non vuol dire che devo essere d’accordo, ma vuol dire che sono curioso e voglio fare amicizia, naturalmente se l’altro è disposto. In un mondo così tristemente maschile, ho pensato che sarebbe stato bello raccontare una storia di donne che fondano comunità e così è nato il progetto Migrant Syrens che è un progetto che lavora sul tema delle donne come fondatrici di comunità.

Come ha trovato le storie da raccontare?
E’ stato un processo lungo e complesso, in cui ho dovuto superare varie barriere, culturali religiose e linguistiche, ma il mio lavoro, come quello di qualunque artista è quello di costruire ponti. La cosa più complessa è entrare in relazione con l’altro. La prima cosa è fare amicizia e questo diventa ancora più difficile se sei in una posizione di forza: una persona di età matura, bianco, inevitabilmente ricco rispetto a chi viene da fuori e devi fare amicizia con delle signore che hanno età diverse e per la maggior parte la pelle scura. Ricordo che la prima volta che ho fatto questa cosa, al Centro Nanà, mi fecero incontrare venti mediatrici insieme a venti donne. Per me fu molto difficile. Raccontai loro la storia della sirena migrante, di fare amicizia, però nessuna reagiva, mi guardavano a metà tra l’ostile e il diffidente. Allora io chiesi perché mi guardavano così e mi spiegarono che erano appena arrivate in Italia, avevano visto morire degli amici e vivevano situazioni difficili. Ti senti impreparato rispetto a certe cose, perché ti rendi conto che, per quanto tu sia mosso da interessi belli e veri, siamo impreparati rispetto alle tragedie che queste persone vedono e subiscono ogni giorno. Allora ho pensato di far vedere loro cosa faccio, ho mostrato dei ritratti e una ragazza bellissima con una folta chioma riccia mi ha sussurrato in francese che lei non aveva il pettine. Voleva dirmi mi piacerebbe farmi fare il ritratto ma vorrei essere bella. Perché sia uomini che donne vogliamo apparire belli e lei si sentiva molto poco bella. Allora ho voluto rischiare grosso e le ho detto: nella vita ci sono cose molto più gravi, io per esempio stamattina sono uscito senza rossetto. Così hanno iniziato a ridere e si è rotto quell’imbarazzo perché hanno iniziato ridere di me e quindi non ero più un pericolo per loro. Ho chiesto sempre alla ragazza di mettere una musica nigeriana che le sembrasse bella e, nonostante sia la persona più scoordinata che esiste, ho iniziato a ballare in una maniera folle. Loro ridevano. Poi ho acceso la telecamera e le ho invitate a ballare, qualcuna era più timida, ma poi vedevano questo signore bianco che ballava insieme a loro. Questo è il mio modo di lavorare, la modalità con cui faccio i ritratti perché in realtà mi piace raccontare chi sono queste donne.

Che tipo di storie cerca?
A 20 anni abitavo in Francia e ho vissuto un po’ il dolore del distacco dalla famiglia, ma io potevo tornare tranquillamente. Mi sono chiesto com’è per una donna che viene da un piccolo villaggio della Nigeria, attraversare tutta l’Africa, arrivare fino a qui senza conoscere nessuno, spesso costrette in situazioni di schiavitù. E’ una roba impressionante, ma perché affrontare tutto questo? Lo si fa non solo perché costretti, ma anche perché c’è una grande forza di volontà, una forza mostruosa che io non avrei. Hanno sacrificato la loro vita perché in cerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli. Io voglio raccontare la storia di donne fiere, allegre, belle nel senso ampio della parola, che sono persone verso le quali dobbiamo avere grande curiosità e desiderio di entrare in contatto.

Dietro ogni ritratto c’è una storia, quante sono?
Ci sono storie incredibili, una signora brasiliana che avrà una settantina d’anni con una voglia di vivere impressionante. Non so, saranno un centinaio. Io ho fatto tre installazioni, la prima per la Regione Campania, la seconda per la UIL nei pressi della stazione, mettendoci sia risorse che relazioni e realizzando cataloghi in lingue diverse.

Come ha intercettato le donne protagoniste di Migrant Syrens?
In vari modi, ma sempre con l’aiuto di una mediazione perché è difficile fermare una donna per strada e chiederle un “ritratto”. E’ più un modo di fare “acchiappanza” che fare un ritratto. Scherzi a parte, io sono stato aiutato da un’assistente donna che si occupava di presentarmi e di spiegare il mio progetto. Poi mi sono appoggiato a diverse strutture, per esempio Dedalus mi ha dato una mano ad entrare in contatto con una casa di accoglienza di Mugnano, Angelo e Tina, che hanno un negozio di frutta e verdura in cui propongono iniziative multietniche, mi hanno ospitato fuori la loro attività per un periodo, la UIL anche ha contribuito a mettermi in contatto con alcuni utenti. Anche se io di natura sono molto bravo a interloquire con gli altri, credo che avere un mediatore sia molto meglio e poi deve essere una donna perché le persone tendono a porsi in una posizione di ascolto rispetto alle donne. Se invece arrivo io, alto 1,94m e chiedo di fare un ritratto, diventa tutto più difficile. Soprattutto deve essere anche un modo di approccio rispettoso della cultura di provenienza, per questo ho avuto la necessità di avere una terza persona, sensibile, donna, che presenta questo progetto in maniera rassicurante.

Il progetto sta andando avanti?
Io il progetto lo sto continuando perché la mia idea è quella di portare avanti questa iniziativa poiché tra i promotori c’è anche la mia università, il Suor Orsola Benincasa. Il Rettore e la nuova Direttrice didattica hanno scritto degli articoli a riguardo. Quello che oggi mi interessa è fare in modo di portare questo progetto in altri paesi e in realtà come quella del Cidis. La mia idea è connettere le realtà esistenti sul territorio con altre estere e con realtà museali. Per esempio a Parigi c’è il Museo delle Migrazioni, che è un piccolo museo, ben fatto, e secondo me potrebbe essere disponibile ad aprirsi a nuove esperienze. Mi piacerebbe fare dei ritratti a Parigi.

Ci sono altri posti in cui le piacerebbe fare ritratti?
Io ho fatto dei ritratti al Mercato di Poggioreale a Napoli con l’idea di lavorare sul confine. Questo mercatino mi piace molto perché è un posto dove tu hai napoletani nati a Napoli e napoletani nati in altre parti del mondo e non sono buoni gli uni con gli altri, sono normali. Si incontrano, come ci si incontra in un mercato, cioè si trattano alla pari ed è una cosa stupenda. Io mi sono innamorato di uno che vende soltanto Thait a persone del Ghana, ed è una persona che parla inglese, ghanese e due altri dialetti del Ghana. E vengono persone da Parigi ad acquistarli per poi rivenderli in Francia. Allora volevo raccontare questo gioco di volti e di persone che si incontrano in quel posto.

C’è una storia a cui è particolarmente legato?
La storia della ragazza che voleva fare il ritratto ma non aveva un pettine, perché è la storia di una ragazza giovanissima che ha affrontato un viaggio mostruoso e ha visto cose orribili e nonostante questo ha ancora voglia di essere femminile, bella attraente, ha voglia di normalità e di vita.

Un altro importante progetto è Lighting Flowers che si concentra sulle periferie

Lighting Flowers è nato così. Il quartiere della stazione lo conosco molto bene, mio nonno aveva un’azienda da queste parti e l’ho sempre vissuta molto. Girando in macchina con il nonno ho sempre immaginato questi edifici di cemento, questi ponti, alcune fabbriche abbandonate e i palazzi diroccati con dei colori e dei segni. Non mi sono mai spiegato molto questa cosa, da piccolo ho soltanto giocato con l’immaginazione. Questa cosa poi mi è tornata in testa e ho cominciato a dipingere delle forme e ho iniziato a pensare che queste forme potessero rappresentare pezzi di quei piloni di autostrada, dei tunnel. Poi sono sceso con due assistenti, uno è Davide Aronica che mi dà una mano ed è molto bravo nelle riprese, e abbiamo iniziato a girare di notte e cercare i posti giusti. Come il lavoro presentato al Festival delle città narranti.

Qual è l’idea dietro questo progetto?
Con Lighting Flowers la mia idea è piantare fiori luminosi nelle periferie del mondo. Nelle cose che faccio c’è sempre il tema sociale e politico, anche se solo in background. Tutti parlano di periferie e della loro pericolosità, di solito anche i grandi investimenti vengono fatti sul centro e mai sulle periferie. Il centro è sempre concentrato in un luogo abbastanza circoscritto, ben illuminato, in maniera dolce e, di solito, è un luogo di permanenza. Le periferie invece sono vaste, illuminate in maniera violenta, come a voler indicare il pericolo di quella zona. Allora la mia idea è illuminare questi luoghi bui con fiori luminosi.

Che significato hanno?
Secondo me hanno il compito di portare bellezza e di comunicare che forse è possibile trasformare certi spazi, utilizzando l’arte per modificarli completamente. Vi racconto un aneddoto che mi ha colpito particolarmente. Una notte ero sotto un cavalcavia a Napoli, nella zona di Gianturco, all’improvviso si accosta una macchina con a bordo un uomo, una donna e una bambina. La donna abbassa il finestrino e inizia a inveire contro di me in napoletano, accusandomi di aver fatto loro una foto. Allora il mio collaboratore si mette in mezzo e dice alla signora di guardare il muro dall’altro lato della strada, dove stavamo proiettando delle immagini, e spiega alla signora che ero un artista. Allora la signora fa uscire anche il marito dall’auto e gli dice “guarda Gennà, è l’arte”. Allora lì il marito tira fuori il telefono e mi chiede di scattargli una foto. Quando poi loro se ne vanno penso che, se Gennaro e Concetta, nonostante un evidente stato di paranoia, pensano che questa sia arte, la percepiscono e poi vogliono fotografarsi, come se stessero davanti ad un monumento, allora ho raggiunto l’obiettivo. Questo mi ha dato molta forza per continuare il progetto e l’ho portato a Yerevan e poi a Sanpietroburgo.

Può spiegarci la tecnica che utilizza per realizzare le installazioni?
Io lavoro a mano, prima a grafite ed olio, poi faccio il ritratto con un green screen che mi serve per eliminare il fondo e darmi la possibilità di poter intervenire sia con olio e grafite che con il painting digitale e poco alla volta nasce questa cosa. Per un altro progetto, Lighting Flowers, anche se sembra che dipinga sul video, in realtà dipingo su un’immagine fissa. Sono delle foto che faccio alle installazioni che stampo in formato abbastanza grande e sopra ridisegno con olio e grafite. Tutto nasce dalla carta e finisce nella carta, comincia con uno schizzo su carta e poi dopo diventa digitale, viene proiettato, ripreso in video, fatta una fotografia e poi dopo torna sulla carta perché disegno su quel pezzo.

Come è nata questa fusione di arte con questi processi multimediali?

Io ho sempre dipinto, fatto foto e scritto poesie, poi ad un certo punto ho iniziato a fare video quando non c’era ancora il digitale e c’erano dei costi impressionanti. Il primo lavoro che ho fatto era con delle fotocopie, si chiama l’Urlo e consiste nell’ingrandimento di cinque quadri sull’urlo fino alla dissoluzione. Riguardarlo ora mi diverte perché, anche se sono dei lavori molto poveri, in realtà li rifarei uguali perché sono proprio come andavano fatti. C’è già quello che poi faccio ora, cioè mettere insieme l’analogico e il digitale. Quando è poi arrivato il digitale per me è stata un’esplosione di gioia, perché improvvisamente si abbattono i costi e questa la trovo una grande forma di democrazia: puoi fare foto e video meravigliosi con macchina che costano un decimo rispetto a prima.

Come si fa integrazione attraverso l’arte?
Da questo punto di vista l’arte è intrigante perché rappresenta un ponte e perché ha delle regole. Chi ha fatto sport, non io, sa che ci sono delle regole e se non le conosci giochi male. Le regole importanti per fare arte sono conoscere gli spazi, i perimetri, i colori, darsi un’idea di progetto. Io ho fatto tre laboratori molto forti a Scampia con l’Associazione “L’uomo e il legno”, che è stata una grande esperienza per il tema del progetto. Spesso le persone pensano che l’arte, poiché libera, sia scevra da regole, questo è un grave errore. Nell’arte ci sono regole e progetti, naturalmente funziona se si fa attenzione a questo senza sentirsi schiavi. Quando a Scampia abbiamo fatto questo laboratorio nelle scuole con ragazzi dai 10 ai 15 anni, all’inizio il tema con i più piccoli era la difficoltà a giocare su un foglio dovendo disegnare con certi colori una certa cosa. A questa si aggiungeva un’altra difficoltà e cioè che l’altro ha un colore che non ho, i ragazzi si chiedevano perché uno avesse il rosso e l’altro l’arancione, questa è la teoria del limite, dovevano sforzarsi di usare quello che avevano a disposizione. Italo Calvino diceva che la poesia si fa in presenza di limiti, un’idea un po’ strana che ha pervaso la nostra cultura romantica. Il limite e il perimetro possono essere cose intriganti, anche io mi do un limite. Quando ho visto che c’erano queste difficoltà, ho portato un grande foglio e gli ho detto costruiamo la mappa narrativa di Scampia. Quando metti venti bambini intorno ad un grande foglio ognuno invade il pezzo dell’altro. Una bambina, Rosa, mi è venuta vicino e mi ha detto che un altro, Peppe, aveva fatto uno scippo, un segno, sul suo disegno. Io le ho detto di colorare di rosso tutto il bordo intorno al segno. Allora si è avvicinato Peppe e mi ha chiesto se qualcuno aveva mai fatto uno “scippo” su un mio disegno, in realtà non era mai accaduto, ma gli ho risposto di sì perché volevo dargli il senso delle cose. Quando lavoro a Lighting Flowers, anche se sto a casa da solo nel mio studio e penso che il mio lavoro sia perfetto, poi in realtà quando esco fuori e lo proietto è un’altra cosa. Può passare un camion o una macchina che si portano via l’immagine e là mi chiedo se quel camion l’ha rovinata o l’ha migliorata perché è diventato parte dell’insieme. Ho raccontato a Peppe questa cosa e lui mi ha risposto: “ Davvero? Allora possiamo fare gli scippi addosso agli altri?”. Ha fatto un segno sulla mano ad un altro bambino e gli ho chiesto di farlo anche a me. Alla fine conservo ancora una fotografia bellissima di questi bambini che mi disegnano sulle mani. Volevo far capire loro che si può costruire qualcosa insieme in maniera corale senza temere l’intervento dell’altro: il limite era diventato la scommessa. Tutto questo è stato fatto non traducendo il significato, perché se arrivi e dici che siamo qui per integrarci ovviamente diventa una noia mortale. Avrei potuto dire “Peppe ti presento Rosa e dovete collaborare e lavorare insieme”, invece ho provocato un contesto in cui le persone possono collaborare ed esprimersi con qualcuno che dietro coordina con una regia nascosta. A Scampia ho fatto anche un lavoro che si chiama L’Altro, in cui i bambini rappresentavano con dei disegni l’altro. Quindi c’è stato qualcuno che mi ha scritto l’altro è amore, l’altro è gioia, invece una bambina ha disegnato una macchia tutta rossa e mi ha detto: “L’altro deve morire”. Chiaramente esprimeva un disagio molto forte, ma questo è un compito dell’arte: tirar fuori delle cose. Questa bambina si è poi confrontata con gli altri guardando i loro lavori. L’arte ha un valore terapeutico, perché aiuta a stare insieme, facendo un progetto insieme, accettando la minore o maggiore capacità dell’altro. Nelle mappe narrative di Scampia alla fine sono venute fuori le icone, i simboli, i desideri che sono presenti nel loro immaginario. Quando le metti tutte insieme in un foglio di sei metri per tre diventa meraviglioso.




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