mercoledì 1 aprile 2015 - Sirio Zolea

Mephisto, di di István Szabó

di István Szabó; 138 min; RFT, Ungheria; 1981.

Maggior successo internazionale del cineasta ungherese Szabó, Premio Oscar del 1982 come migliore film straniero, l’opera è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Klaus Mann, che ripercorre la vita e l’ascesa dell’attore Hendrik Höfgen (che a sua volta ricalca il personaggio reale Gustaf Gründgens, ex cognato dello scrittore) sotto la Repubblica di Weimar e poi dopo la presa del potere da parte dei nazionalsocialisti.

Travagliata fu la vita letteraria del romanzo, con una lunga vicenda giudiziaria che ne ostacolò a lungo la pubblicazione: tuttavia, oggi esso gode di un meritato successo e di un’ampia diffusione, come uno dei capolavori della letteratura antinazista.

Mann, esule politico al tempo in cui scriveva, si mostra capace di un occhio attento e perspicace sui meccanismi che stavano sprofondando la Germania nella rovina, e tutto il vecchio continente con essa; egli nel romanzo si rivela al tempo stesso compartecipe del dramma del proprio popolo sotto il giogo della barbarie nazista, ma anche quando necessario osservatore distaccato e ironico delle vicende che fungono da sfondo alla vicenda umana e professionale dell’attore. La trama è appunto l’ascesa di un affabulatore di talento, un istrione venuto alla ribalta nella stagione d’oro del teatro tedesco, quando la turbolenta storia della Germania di Weimar, come un interludio fra due immani tragedie del Novecento, faceva da sfondo a uno spinto sperimentalismo in campo letterario e artistico e tutto il mondo del teatro guardava con interesse e meraviglia alle scene del Kurfürstendamm berlinese. L’attore, inizialmente di simpatie comuniste e pronto a sostenere, almeno a parole, le dure lotte che in quegli anni vedevano protagonista il proletariato tedesco, vive un travagliato percorso che lo porta dalle scene di provincia ai teatri di Berlino e al cinema, diventando famoso per la sua interpretazione di Mefistofele nel Faust di Goethe. Divenuto tra i volti più acclamati del mondo dello spettacolo, egli antepone la brillante carriera, a cui non è disposto a rinunciare, alle idee politiche e sociali, fino a diventare un fantoccio di regime, giullare dal volto pulito da mostrare all’esterno, beniamino del boia Göring che qui si mostra in una veste di becero mecenate.

Il carattere nevrotico di Höfgen, tra sbalzi di umore, eccessi, simpatie e antipatie improvvisi, la sua irresolutezza nei momenti cruciali, la sua ipocrisia ben si accompagnano all’atteggiamento ipocrita della borghesia tedesca negli anni ’30, che ben traspare dal romanzo e dal film, pronta a gettarsi nelle mani del nazismo, considerato come un fenomeno passeggero, per scongiurare ogni rischio di rivoluzione popolare.

Il film si dimostra piuttosto fedele al romanzo, che per necessità, pur essendo di considerevole durata, si trova a riassumere, concentrandosi sulle sequenze fondamentali. Degne di nota le vivaci scene di interno, fra cui il sontuoso ricevimento dei gerarchi nazisti e gli incontri dell’attore con la sua amante, il cui rapporto sadomasochistico risulta più sfumato che nel romanzo. Innova poi il regista nel finale espressionistico, probabilmente in omaggio alla miglior tradizione del cinema tedesco.

Nel film, permeato di un’atmosfera faustiana in tutta la vicenda del protagonista, nella sua ascesa professionale e discesa morale, si intrecciano temi come una visione dall’interno dei meccanismi e del fascino del teatro, lo spirito creativo del popolo tedesco piegato da una cieca brutalità, il pericolo rappresentato dall’avvento al potere di forze irrazionali e sanguinarie, il rapporto tra mondo del potere e mondo dello spettacolo. Proprio la prospettiva lucida ma appassionata su queste ultime problematiche rende il film quanto mai di attualità e ne consiglia particolarmente la visione ai nostri giorni, non solo come cronaca storica di un’epoca lontana, ma con l’invito – a parere di scrive – ad attualizzarne e rileggerne il messaggio in una nuova epoca di irrazionalismo montante, in cui la contesa per il potere si svolge ampiamente sul piano dello spettacolo e in cui al tempo stesso il Potere più che mai si serve di una spettacolarizzazione della vita individuale e associata, in cui i mezzi di informazione di massa fanno di ogni istante un palcoscenico dalle caratteristiche ambigue e caotiche, piegato ai fini più eterogenei in un meccanismo dall’apparenza inarrestabile.




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