giovedì 18 gennaio 2018 - Giovanni Greto

Mario Brunello e il Quartetto di Venezia a "Lo Squero"

Conclusione in bellezza della seconda stagione concertistica all’isola di San Giorgio

Si è conclusa con due ottimi recital la seconda stagione concertistica dell’Auditorium “Lo Squero”, il nuovo spazio musicale restaurato dalla Fondazione Cini.

Il primo ha avuto come protagonista Mario Brunello, il quale ha portato a termine un progetto dedicato alla musica per archi di J.S.Bach, eseguendo in ognuno dei sei appuntamenti previsti, una Suite per violoncello alternata ad una Sonata o a una Partita per violino, utilizzando nelle ultime due il violoncello piccolo. Nell’ultimo pomeriggio a sua disposizione, Brunello ha dapprima intonato la “Suite n.1 in Sol maggiore per violoncello solo”, BWV 1007, la più conosciuta, forse per il Preludio, che ha un carattere intimo, è molto scorrevole e ricorda l’atmosfera dei preludi del “Clavicembalo ben temperato”. Per questa Suite composta, come per le altre e per le Partite e Sonate per violino solo, tra il 1717 e il 1723, nel felice periodo durante il quale Bach lavorò come Kapellmeister alla corte del Margravio di Brandeburgo a Cothen, dopo l’Allemanda, la Corrente e la Sarabanda, Bach inserisce come “Galanterie” due eleganti Minuetti, il primo melodicamente e ritmicamente più vivace, il secondo, in minore, più composto, prima di concludere con le gioiose movenze popolaresche danzerine di una briosa Giga. Posato con delicatezza il prezioso strumento, Brunello ha preso il violoncello piccolo – in auge fino alla metà del 1700, poi destinato a scomparire per colpa del violoncello – per eseguire la “Partita n.2 in Re minore per violino solo”, BWV 1004. Lo strumento piccolo – ha spiegato il musicista – è considerato un violino che suona le parti basse e accompagna le arie dei cantanti. Partite e Sonate sembra siano state pensate per il violoncello piccolo da spalla, che probabilmente Bach usava sia per la parte dei violini, sia per quella dei bassi. La Partita n.2, in cinque movimenti, osserva nella struttura il classico schema di una Suite. Inizia con un’Allemanda, danza di origine tedesca, moderatamente ritmica; prosegue con una Corrente, di origine franco-italiana, che trae il nome dalla vivacità del suo movimento; seguono una Sarabanda, dal tono grave e solenne, di origine arabo-moresca o turco-iraniana ed una Giga, danza popolare di probabile origine inglese, di movimento veloce, in 6/8, 6/4 o, come in questo caso, in 12/8. A questo punto arriva il momento della famosa “Ciaccona”, probabilmente scritta da Bach, in preda ai sensi di colpa, in memoria della moglie Maria Barbara. Che cos’era successo? Il compositore aveva dovuto seguire il principe Leopold per due mesi a Karlsbad. Al ritorno, trova la moglie morta e le dedica una specie di epitaffio, lungo più degli altri quattro movimenti messi insieme che lo precedono. Derivata da una danza di origine spagnola o forse da una danza di meticci importata dall’America centrale verso la fine del Cinquecento, dal punto di vista della forma la Ciaccona è un tema originato da quattro battute di un basso che si ripete e si sviluppa in 29 variazioni per un totale di 257 battute. E’ un basso triste, perché usa dei semitoni che rappresentano la tristezza. Ci sono poi dieci corali che possono sovrapporsi alla Ciaccona, per ricordare che in epoca barocca, assieme alla Fuga la Ciaccona era riservata all’organo. E’ un movimento particolarmente faticoso, quanto appassionato, che ha messo alla prova l’abilità del musicista, applauditissimo, ritornato sul proscenio, senza concedere nemmeno un fugace bis.

Il concerto di addio, con un implicito arrivederci, è spettato alla formazione in residenza alla Fondazione Cini, che nella stagione precedente, quella che segnò l’esordio dello Squero, aveva interpretato l’integrale dei Quartetti di Beethoven. Sto parlando del Quartetto di Venezia, sempre più emozionante nelle sue esibizioni, che è cambiato in meglio, sostituendo, per un abbandono improvviso quanto inaspettato, il violista Giancarlo di Vacri con Mario Paladini. Il primo brano in scaletta, in quattro movimenti, è stato il “Quartetto per archi in Re minore ‘Delle quinte’, op.76 n.2”(1797) di Franz Joseph Haydn (1732-1809). Conosciuto anche come “Erdody-Quartette n.2”, perché fa parte di sei quartetti dedicati al conte ungherese Erdody, si articola in quattro movimenti: un “Allegro” brillante; un “Andante o più tosto allegretto. Cantabile”; un “Menuetto. Allegro ma non troppo”, con il da capo; un finale “Vivace assai”. E’ detto “Delle Quinte, dall’intervallo che caratterizza sistematicamente il materiale tematico impiegato.

“Funf Satze fur Streichquartett op.5”(1909), ‘cinque pezzi per un quartetto d’archi’ di Anton Webern (1883-1945) si dividono in due movimenti rapidi, il primo “heftig bewegt” (fortemente agitato) e il terzo “sehr bewegt”(molto agitato), alternati con due movimenti lenti, il secondo e il quarto, entrambi “sehr langsam” (molto lento) e nel conclusivo moderato “in zarter Bewegung” (un movimento più tenero), assai interessante perché si basa sul dialogo a distanza tra il violoncello e gli altri strumenti.

Dopo una pausa per riprendere fiato e a concentrarsi per il gran finale, il Quartetto è ritornato in pedana per eseguire il “Quartetto per archi n.13 in Si bemolle maggiore, op.130”(1825) di Ludwig van Beethoven(1770-1827), nella versione primigenia, prima cioè che il compositore, forse su pressione del suo editore, decidesse di sostituire il sesto e ultimo movimento (Grande Fuga) con un “Finale.Allegro”, costruito come un Rondò su temi popolari. Fra i musicologi circolano pareri discordanti, circa il reintegro al suo posto di un movimento così monumentale . Fatto sta che subito dopo, “Grande Fuga” diventò un brano a sé stante (op.133). In ogni caso, il Quartetto di Venezia ha eseguito con precisione, passione ed eleganza il lungo movimento, costituito da tre ampie fughe precedute da un’introduzione (che Beethoven chiama Overtura) e inframmezzate da episodi in stile contrappuntistico. Evaporate le ultime note, la platea rimane senza fiato per una manciata di secondi. Poi, come se si ridestasse da un sogno, tributa applausi scroscianti e meritatissimi ad un organico che concerto dopo concerto si rivela sempre più affiatato e in grado di esprimersi, e in questo consiste la difficoltà e la bravura, con un suono unitario, immediatamente riconoscibile come quello del Quartetto di Venezia.

 




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