martedì 15 dicembre 2015 - Giovanni Greto

Lo spirito d’Armenia è penetrato al Teatro La Fenice

‘Nostos’, “ritorno”, la nuova stagione di musica da camera della Società Veneziana di Concerti non poteva cominciare in maniera migliore. Sul palco di un teatro La Fenice, per la verità non esaurito, è infatti salito il settantacinquenne violista e ricercatore musicale Jordi Savall con una formazione ridotta dello storico gruppo (la fondazione nella città di Basilea risale al 1974) Hesperion XXI, cui si sono aggiunti quattro musicisti armeni : Aram Movsisyan, poco più che trentenne, alla voce e al Daf, un tamburo a cornice al cui interno trova posto una serie di anelli metallici ; Georgi Minassyan e Haig Sarikouyoumdjian al duduk; Gaguik Mouradian al Kamantcha, un antico strumento originario dell’Azerbaijan a 3, 4, 5 corde, suonato con un arco.

Oltre a Savall alla viella e alla viola ad arco, leader e responsabile della direzione, Hesperion XXI allineava l’italiana Viva Biancaluna Biffi alla viola d’arco, il catalano Dani Espasa all’organo e il veterano compagno d’avventure Pedro Estevan, di Alicante, alle percussioni (tambor tenor, darbuka e tamburo a cornice). Il concerto, sviluppatosi in due tempi, ha presentato composizioni sia vocali che strumentali anonime, canti tradizionali raccolti da Komitas Vardapet (1869-1935), pezzi di Sayat Nova (1712-1795) e di altri autori quali Gusan Ashot ( 1907-1989), Gabriel Yeranian (1827-1862), Bardo Djivan (1846-1908), T.Tchukhadijan (1837-1898). Come ha dichiarato a fine esibizione Savall, chi ascolta questi canti entra in comunione con lo spirito di un popolo che ha creato una musica di aiuto alla sopravvivenza, tanto più bella, quanto più ha dovuto soffrire. La serata è stata dedicata alle vittime del genocidio, di cui quest’anno si celebra il centenario, e a quelle di oggi, ricordando, ha concluso Savall, come “la guerra fa sempre più male alla gente innocente, mentre il ricorso alla violenza non risolve niente”. La musica armena riesce a penetrare nell’intimità di ogni persona ed è caratterizzata da una dolce, persistente malinconia, che agisce quasi in maniera terapeutica.

Grazie forse anche al duduk, strumento ad ancia doppia in legno di albicocco, di dimensioni che variano da 28 a 40 centimetri, dal timbro caldo e leggermente nasale, le cui origini risalgono, si dice, a 3000 anni fa. Bravissimi, i due esecutori armeni si sono bene intersecati con il melodioso e, all’occorrenza, lamentoso canto di Mosisyan, dando luogo ad episodi di intensa spiritualità. Buona, come sempre, l’acustica del Gran Teatro, capace di accogliere numerose proposte di differenti generi musicali.




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