mercoledì 5 luglio 2017 - Pino Mario De Stefano

Lo sguardo delle cose

Non avete l’impressione che qualcosa non funzioni nel principio etico secondo cui non bisogna trattare le persone come una cosa, come oggetto? Non nel senso che il principio non sia valido, ma nel senso che esso mostra un “tallone d’Achille”.

 
Infatti quel principio si fonda sul presupposto che le cose, invece, non si appartengono, possono essere possedute, non possono essere concepite come soggetto di nessun diritto (Lalande).
 
Ma è proprio così? È, quest’ultima, una giusta prospettiva?
 
Se il principio di cui sopra presuppone un’eccezione, nel senso che esiste qualcosa, intorno a noi, che può essere usata e abusata in quanto oggetto, chi ci impedirebbe di trovare, come è già accaduto, delle eccezioni, a quel principio, anche riguardo agli umani? Basterà descrivere qualcuno come “meno” umano, o addirittura “per niente” umano! In realtà, i diritti hanno una strana caratteristica intrinseca: o sono riconosciuti come universali, nel senso più ampio della parola, o sono destinati a franare facilmente.
 
E, infatti, con il passare dei secoli abbiamo imparato ad estendere quella universalità a una parte del mondo animale, e per certi aspetti anche al mondo vegetale.
Oggi, siamo tutti più sensibili verso “l’ambiente”, verso la natura; abbiamo sviluppato una nuova consapevolezza “ecologica”. Ma tutto ciò è sufficiente?
 
Credo di no. Il cammino sembra ancora incompleto. 
Per due ordini di considerazioni.
 
Prima di tutto.
I concetti di “ambiente”, “natura”, corrono il rischio di trasformarsi, come pensava Chesterton, solo in una specie di “mostri” con tante teste, se non siamo capaci di andare oltre, fino a capire che, per esempio, i “singoli” alberi o piante non sono, solo, "il bosco". Così come non basta pensare all’ “ambiente”, ma occorre mettere al centro le “singole cose” che lo abitano. Ognuna con la sua individualità. Con un suo significato e un suo posto specifico. 
Finché non capiremo che non ci conviene dissolvere i contorni delle singole cose, quella nuova sensibilità ambientale sarà sempre ancora vulnerabile. 
 
Secondo ordine di considerazioni.
Finora abbiamo esteso quel principio, anche se in modo relativo, solo al mondo animale e a quello vegetale. Manca, però, un passo ulteriore. Occorrerebbe una svolta anche nell’atteggiamento verso “le cose” inanimate, siano esse naturali o manufatti: anch’esse parte insostituibile del “nostro” ambiente. 
 
Quante “cose” sono intorno a noi, nelle nostre città, nelle campagne o sulle colline, nelle volte celesti, nelle nostre case, sui nostri tavoli, sui nostri comodini, sulle pareti della nostra camera, nella nostra borsa, sulle nostre verande, tra le nostre mani...ognuna con la sua individualità, la sua “voce”, il suo senso insostituibile per noi! Sono solo “oggetti” senza diritti? E, allora, per quale ragione, quando una minuscola sezione di uno degli innumerevoli monumenti in pietra o anche semplicemente un ciottolo da noi raccolto sulla riva di un fiume, o addirittura una vecchia sedia che conserviamo su una veranda, vengono maltrattati, reagiamo tanto?
Scriveva Benjamin: “alle cose che non ho più...appartiene a volte la beatitudine del non ancora vissuto, della ripetizione, del recupero”. Quante volte una “cosa” è per me, per noi, come il “complemento dell'esperienza vissuta"?
 
Ci servirebbe, forse, un allenamento a vedere il lato individuale, eccezionale e sorprendente delle cose, non solo delle cose straordinarie, o cariche di memoria collettiva, ma anche di quelle ordinarie e banali, compagne del nostro vivere di ogni giorno.
 
Qualcuno ha detto che le cose non stanno “lì fuori”, come silenziosa materia indistinta e inerte ma sempre come qual-cosa che “viene a noi”.
 
Sì, “ciò che vediamo e che guardiamo è, al contempo ciò che ci ri-guarda, nel duplice senso, insieme percettivo ed etico, del guardare e del concernere” (Pinotti Somaini).
Sì, esiste “sguardo” anche senza “visione”. Possiamo avere un’idea di questo “fenomeno”, se pensiamo ad alcune cose-immagini, che ci “guardano” senza vederci, come per esempio il famoso poster I Want You! dello Zio Sam, creato per la guerra del 1917, o il dipinto Las Meninas di Velasquez. “Sguardi” che ci provocano. Ci chiedono qualcosa.
Ebbene, tutte le cose ci ri-guardano anche senza vederci, e quindi ci apostrofano, ci interpellano, ci domandano!
 
Le cose, rappresentano, in qualche modo, il nostro “limite” non negoziabile e non riducibile; il limite di cui abbiamo bisogno. Le cose sembrano dire solo con la loro presenza: non esisti solo tu, non esistete solo voi umani o viventi
 
Lasciare che gli oggetti svolgano il loro compito è un nuovo urgente esercizio per noi!
“Le cose, i tanti aspetti degli esseri, sono come un alfabeto misterioso, diceva Andrea Emo, che tutti dovrebbero saper leggere o ascoltare. E non occorre essere un idealista o uno spiritualista, per cogliere questa dimensione della realtà: pure un distruttore di certezze metafisiche e un dissacratore, come Nietzsche, aveva capito che anche le cose, tutte le cose, “cercano le parole per essere dette”, e quindi interpellano, chiedono, vogliono!
 
Le cose “dicono” sempre qualcosa! Sembra che ti guardino e ti dicano qualcosa, o ti chiedano qualcosa! È come se ognuna di esse ti dicesse: io sono qui, ci sono anch’io, il radicalmente altro da te! cosa vuoi farne di me? Vuoi solo usarmi o senti che sono qualcosa che ti ri-guarda?
 
Qualcosa a cui devi gratitudine, perché noi, le cose, doniamo orizzonti, sfondi e prospettive alle vostre esperienze umane. Diamo movimento, ritmo ed emozioni al vostro spazio. Talora riempiamo la vostra solitudine.
 
Qualcuno arriccerà il naso, considerando tutto questo solo antiquato antropomorfismo.
Ma forse è il caso di riconoscere che c’è qualcosa di vero, di reale e di incancellabile anche nell’antropomorfismo! Nel guardare alle cose e lasciarsi guardare da esse, come espressione non di inerte e disponibile materia, ma come “soggetti”, in qualche modo dotati di una forma di “personalità”!
 
Del resto, se quelle particelle e quelle molecole, dell’alba dell’evoluzione, sono riuscite a trasformarsi nel linguaggio, nel pensiero e nella coscienza umana, una qualche forma di coscienza deve pur esserci, da sempre, anche nelle cose “inanimate”, a dispetto del nostro ingenuo separare nettamente, in comode classificazioni, la molteplicità del reale, magari con la presunzione di addomesticarlo e renderlo manipolabile e disponibile.
 
Non è un caso, d’altra parte, se oggi, nell’ambito degli “studi visuali”, si tende a pensare che l’inclinazione antropomorfica nei confronti degli oggetti inanimati rappresenta una strutturale disposizione degli umani, e un “sintomo incurabile” come pensa W.J.T. Mitchell, citato da A. Pinotti e A. Somaini nel loro illuminante volume Cultura visuale, Einaudi. È proprio vero, come ha scritto anni fa Bruno Latour, che, da questo punto di vista, “non siamo mai stati moderni”! 
 
E inoltre, tanto per fare qualche esempio, come spiegare, se non con quella inclinazione, con quel “sintomo incurabile”, il senso profondo che ci comunicano il Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi, o il Canto alla Luna di Leopardi? O, per vemire ai nostri giorni, Conversazione con una pietra, di Wisława Szymborska?
E, ancora, credo che, se non tenessimo conto di questa “disposizione strutturale”, non riusciremmo neppure a comprendere a fondo il ruolo che i media, il cinema e l’arte contemporanea, con i loro metodi e i loro contenuti molto peculiari, svolgono oggi nella nostra vita individuale e collettiva.
 
Partire dalle cose, accorgersi di esse e accogliere il loro “sguardo cieco”: forse solo se si comincia da un nuovo sguardo verso le cose è possibile arrivare davvero anche ai valori essenziali ed universali.
 
Forse se ci sentissimo responsabili della "cura" e della custodia delle “cose”, di tutte le cose che esistono, creeremmo nuove condizioni e un atteggiamento giusto per uno sguardo e un'attenzione meglio motivata anche verso ogni singolo essere umano. 
 



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