giovedì 2 dicembre 2021 - UAAR - A ragion veduta

Libertà di parola ed etica della virtù

La libertà di parola in senso assoluto e illimitato non esiste, se non come ideale. Nella vita reale è infatti soggetta a doveri e responsabilità. E si presta a molte controversie: basti pensare alla piaga delle fake news, alle guerre ideologiche o alle leggi contro la blasfemia. Come e dove porre dei limiti? Il filosofo Massimo Pigliucci si (e ci) interroga, con gli strumenti dell’etica laica, in questo contributo pubblicato sul numero 5/2021 della rivista Nessun Dogma.

Il diritto alla libertà di parola o, in senso più ampio, alla libertà di espressione, è sancito dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il diavolo, però, si nasconde nei dettagli: un emendamento a questo articolo afferma che questo diritto porta con sé doveri e responsabilità, e che può quindi essere soggetto a determinate restrizioni, quando necessario, per il rispetto dei diritti e della reputazione altrui, o per la protezione della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della salute e della moralità pubbliche.

In altre parole, la libertà di parola intesa come diritto assoluto e illimitato non esiste. La maggior parte delle persone ragionevoli penserà che questa è una buona cosa. Per esempio, nessuno vorrebbe che un hacker che pubblica i codici nucleari degli Stati Uniti o della Russia venisse protetto dal diritto alla libertà di parola. Sembra anche del tutto sensato affermare che il diritto alla libertà di parola si accompagna, come d’altro canto ogni diritto, a doveri e responsabilità. Un comedian, per esempio, deve essere libero di prendere in giro chiunque, ma la sua etica professionale dovrebbe spingerlo a “colpire” verso l’alto, contro i potenti e i grandi interessi, non verso il basso, contro la gente comune. Nel primo caso quel comedian è allo stesso tempo divertente e utile socialmente, mentre nel secondo caso è solo un cretino.

Fondamentalmente la libertà di parola è la promessa da parte di un governo di non interferire con la libertà di parola dei suoi cittadini, a meno che non intervengano le eccezioni di cui sopra. Questo significa che la libertà di parola è ciò che i filosofi chiamano un diritto negativo: il governo promette di non interferire, ma non è obbligato a fornirti alcunché. Anche le aziende private non hanno alcun obbligo a riguardo: il che significa che quando la gente invoca con veemenza la libertà di parola in risposta alla cacciata di qualche personalità da un social network sta semplicemente parlando a vuoto.

Il concetto di libertà di parola ha una lunga storia, che riflette la sua importanza nel pensiero occidentale. Emerse per la prima volta alla fine del VI secolo a.e.v. ad Atene, ed era tenuta in grande considerazione nella Repubblica romana; venne codificata nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino durante la rivoluzione francese nel 1789 e nel primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti due anni più tardi.

Forse il più famoso difensore moderno di questo diritto è John Stuart Mill. Nel suo Saggio sulla Libertà (1859) Mill mette a punto il suo famoso principio del danno: «La sola ragione per cui il potere può essere esercitato su un membro della comunità civile contro la sua volontà è evitare danni ad altri». Questo pensatore credeva che la parola dovesse essere limitata solo quando può causare direttamente un danno fisico, per esempio quando si fa incitazione alla violenza. In tutti gli altri casi, continuava Mill, si dovrebbero lasciar circolare sia le idee buone sia le idee cattive, perché alla fine sarà la verità a sconfiggere la menzogna. Questo è l’esempio perfetto di come una premessa filosofica del tutto ragionevole possa essere smentita clamorosamente dall’evidenza empirica. C’è da chiedersi se Mill oggi sarebbe disposto a rivedere la sua teoria alla luce dei social media, delle teorie del complotto e delle fake news.

Uno dei punti centrali della teoria di Mill è che l’offesa non dovrebbe mai servire da motivazione per restringere la libertà di parola, perché l’offesa non è davvero dannosa, almeno non nel modo in cui lo è urlare «Al fuoco!» dentro un teatro affollato. Una delle idee peggiori che sono state proposte a questo riguardo negli ultimi anni è il principio dell’offesa introdotto da Joel Feinberg nel 1985. Feinberg pensava che il principio del danno fosse troppo permissivo, e che ci siano situazioni in cui può essere giusto punire chi offende qualcuno o chi parla contro qualche istituzione. Idee simili sono sancite nell’emendamento all’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani a cui facevamo riferimento in apertura. Il problema, ovviamente, è che mentre il danno fisico può essere accertato con una certa oggettività, l’offesa è soggettiva. Per esempio, a differenza di Feinberg, io sono profondamente offeso dal principio dell’offesa.

Le leggi sulla blasfemia sono un esempio particolarmente pernicioso del principio dell’offesa. Queste leggi esistono in circa un quarto degli stati del mondo, non solo in quelli in cui ce le aspetteremmo, come l’Arabia Saudita. L’Austria, per esempio, ha una legge contro la diffamazione di Maometto. Le leggi sulla blasfemia sono un’idea pessima: anche solo per il fatto che le differenti autorità religiose, e ovviamente i differenti individui, sono in disaccordo su cosa sia blasfemo. D’altro canto, i cristiani della tarda antichità e del medioevo combatterono interminabili guerre intestine per stabilire quale fosse la natura della trinità.

Un problema sempre più evidente è che tutti amiamo la libertà di espressione, ma solo fino a quando non viene concessa al nostro avversario ideologico. Negli Stati Uniti i conservatori esaltano la libertà di parola, a meno che non sia quella delle aziende che hanno deciso di boicottare le leggi sulla cancellazione del voto recentemente promosse dal partito repubblicano in diversi stati. Allo stesso modo i liberal si dipingono come difensori della libertà di parola, ma lo sono solo finché qualcuno non critica qualche posizione a loro cara, come ad esempio la questione di genere. Il problema è che, come afferma Noam Chomsky, se credi nella libertà di parola devi crederci anzitutto per coloro che la pensano diversamente da te. Da questo punto di vista, sono in pochi ad essere davvero per la libertà di parola.

Storicamente le principali restrizioni alla libertà di espressione sono state la scarsità di accesso all’informazione e l’assenza di luoghi in cui esercitarla. Quando venne inventata la stampa i poteri dell’epoca persero la testa proprio perché la nuova invenzione metteva a rischio il loro monopolio dell’informazione. Nel 1501, per esempio, il papa Alessandro VI pubblicò un editto papale che proibiva le stamperie non autorizzate; poco più di mezzo secolo più tardi, il suo successore Paolo IV iniziò a compilare il tristemente famoso Index Expurgatorius, l’indice dei libri proibiti, che alla fine diventò involontariamente una sorta di lista di audaci pensatori che tutti dovrebbero leggere, tra i quali erano René Descartes, Galileo Galilei, David Hume, John Locke e Voltaire.

Ma non era solo la chiesa a sentirsi minacciata: anche molti governi consideravano la stampa un problema. La monarchia francese intraprese grandi sforzi per reprimere la stampa, sforzi che culminarono nella condanna a morte di uno stampatore, Etienne Dolet, che venne bruciato al rogo nel 1546. Centinaia di autori e stampatori vennero imprigionati nella Bastiglia prima che questa venisse liberata all’inizio della rivoluzione.

Al giorno d’oggi internet, e specialmente i social media, hanno cambiato completamente la situazione. Il problema non è più la scarsità di informazione o la difficoltà di accesso agli strumenti di comunicazione, ma il contrario: un profluvio di informazione, spesso di dubbia qualità, riempie milioni di blog, podcast, siti di cosiddette news e pagine dei social media. Che i guardiani dell’informazione tradizionale come grandi giornali, radio, televisioni e opinionisti abbiano perso importanza è probabilmente un bene, perché ha reso più democratici l’informazione e il dibattito pubblico, aprendoli a chiunque abbia un computer e una connessione alla rete. Ma è stato anche un disastro: l’informazione web sembra il selvaggio west, un luogo dove ciascuno deve farsi le sue notizie da sé, e in cui è pieno di gente che vende falsità senza doverne rispondere a nessuno.

Apparentemente non c’è modo per sistemare questo caos. C’è stato un benvenuto aumento dei siti che fanno fact checking, ma chi esercita il fact checking su questi siti? E soprattutto: chi fa uso regolare di questi siti, oltre a qualche giornalista e a qualche anima coraggiosa?

Il sempre più diffuso e pericoloso grado di disinformazione presente nei social media ha ultimamente attratto l’attenzione dei legislatori. Ma cosa dovrebbero fare esattamente le compagnie che possiedono i social media? Non ho certo simpatia per persone come Mark Zuckerberg, ma non è né plausibile né auspicabile che Facebook (o Twitter, o qualunque altro social media) possa essere ritenuto legalmente responsabile per ogni post che viene pubblicato nel mondo.

Non penso che questo problema sia attualmente risolvibile: dovremo vedere come la situazione evolve nel tempo. Ma ho dei suggerimenti e delle idee, basati sulla mia comprensione e la mia pratica dell’etica della virtù. L’etica della virtù è uno dei tre insiemi in cui viene tradizionalmente suddivisa la filosofia morale: gli altri due sono l’utilitarismo (teorizzato da J.S. Mill) e la deontologia (teorizzata da Immanuel Kant). Mentre questi ultimi si focalizzano nella definizione di regole universali, l’etica della virtù pone la sua attenzione su cosa può fare il singolo individuo. Se attualmente non esiste alcuna soluzione universale al problema della libertà di parola, possiamo almeno chiederci come si dovrebbe comportare il singolo individuo che voglia essere parte della soluzione anziché contribuire ad esacerbare il problema.

La nozione base nell’etica della virtù è che dovremmo agire in accordo con quattro virtù cardinali: saggezza pratica, coraggio, giustizia e temperanza. La saggezza pratica è la conoscenza di quali esperienze o azioni sono davvero buone o cattive, al di là di quello che altri potrebbero pensare, in particolare riguardo a come queste azioni influenzano il carattere. Il coraggio è la volontà di fare ciò che è giusto indipendentemente dalle eventuali conseguenze negative che possiamo avere per noi stessi. La giustizia è l’agire equamente nei confronti degli altri, ossia nel modo in cui si vorrebbe che gli altri agissero nei nostri confronti. La temperanza, infine, è l’idea che dovremmo agire con misura, senza esagerare in un senso o in un altro.

Proviamo ad applicare queste quattro virtù cardinali a una tipica situazione riguardante la libertà di parola altrui. Supponiamo che qualcuno, per esempio nostro zio durante la cena del ringraziamento, o uno sconosciuto su Twitter, dica qualcosa che noi riteniamo profondamente insultante, qualcosa che tocchi la nostra identità politica, religiosa, etnica o di genere. Come dovrebbe rispondere un seguace dell’etica della virtù? Consultiamo le quattro virtù cardinali.

Saggezza pratica: questa offesa ti renderà una persona peggiore, influenzando il tuo carattere? No, perché le offese sono tali solo se glielo permettiamo. In caso contrario si tratta solo di aria che esce dalla bocca dello zio o di elettroni mossi dallo sconosciuto su Twitter battendo sulla tastiera. Questo vuol dire che non dovremmo arrabbiarci, perché questo influenzerebbe la nostra capacità di reagire ragionevolmente, e che dovremmo invece fare qualcosa di buono per il nostro carattere, per esempio spiegare la situazione a colui che ha cercato di offenderci, che evidentemente non sa bene come ci si deve comportare.

Coraggio: ci vuole coraggio a ribattere, con decisione ma anche con gentilezza, ad una persona che sta cercando di offendere te o qualcun altro. Quindi dovresti ribattere.

Giustizia: non vorresti che gli altri cominciassero ad aggredirti o che ti ostracizzassero solo perché hai detto qualcosa che loro ritengono sbagliato o offensivo. Vorresti, piuttosto, che ti spiegassero perché secondo loro hai detto qualcosa di sbagliato. Quindi è giusto che tu faccia lo stesso nei confronti di chi cerca di offenderti.

Temperanza: la tua reazione non deve essere né troppo dimessa né troppo esagerata. Un commento casuale non avrà nessun buon effetto: devi spiegare per bene quello che vuoi comunicare. D’altro canto urlare, minacciare o perpetrare violenza sarebbero chiaramente reazioni eccessive, date le circostanze.

Forse il comportamento virtuoso più adatto al caso in oggetto è quello riassunto da Marco Aurelio, l’imperatore filosofo: «Gli uomini sono fatti l’uno per l’altro: istruiscili, dunque, o sopportali».

L’altra persona risponderà allo stesso modo? Ti ascolterà e poi replicherà in modo altrettanto costruttivo? Non lo sappiamo, non puoi controllare le azioni altrui. Ma puoi controllare quello che tu fai e dici. Comincia da questo. Viviamo in una società in cui si parla di diritti continuamente: io ho il diritto di fare questo, io ho il diritto di dire quest’altro. I diritti sono senz’altro importanti, ma dovrebbero accompagnarsi alle responsabilità. E la nostra responsabilità più importante è cercare di rendere il mondo un posto migliore, nel piccolo delle nostre possibilità. È improbabile che si renda il mondo un posto migliore aggredendo il prossimo. È assai più probabile che si facciano passi in avanti cercando di istruire il prossimo, o semplicemente sopportandolo quando istruirlo non è un’opzione realistica al momento. Ma sul lungo periodo è sempre un’opzione valida.

Massimo Pigliucci

Traduzione di Mosè Viero
Articolo originariamente pubblicato in inglese alla pagina: https://areomagazine.com/2021/05/20/free-speech-and-virtue-ethics/ e tradotto su gentile concessione.

Approfondimenti

figsinwinter.blog
John Stuart Mill, Saggio sulla Libertà

 

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