martedì 26 novembre 2024 - Phastidio

Legge di Bilancio | Lo Stato revisore e i costi della politica

La legge di bilancio prevede che il Mef entri nel collegio dei sindaci e revisori di società, enti, organismi e fondazioni che percepiscono soldi pubblici. Controllo di spesa pubblica o della vita aziendale?

L’articolo 112 del disegno di legge di bilancio per il 2025 si intitola “Misure di potenziamento dei controlli di finanza pubblica“. Il comma 1 di tale articolo estende l’obbligo di integrare la composizione del collegio di revisione o sindacale con un rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze a

Società, enti, organismi e fondazioni che ricevono, anche in forma indiretta, contributi a carico dello Stato di entità significativa. 

Tale obbligo è già previsto, per le amministrazioni pubbliche, dall’articolo 16 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, le cui disposizioni sono fatte salve. 

 

Sindaci del Mef per contributi pubblici

Nella sostanza, e per non gravare sui conti dei soggetti destinatari della misura (bontà dello stato), questi ultimi dovranno sostituire uno dei sindaci con uno nominato dal Mef. Ma quale sarebbe la soglia di “entità significativa” che fa scattare questo presidio? Lo stesso comma 1 prevede che venga fissata con decreto del presidente del consiglio dei ministri (Dpcm) da adottare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di bilancio. “Si prevede, tuttavia, che, in sede di prima applicazione, detta soglia è fissata nell’importo di 100 mila euro annui“.

Attenzione: si parla di importi “annui”, il che significa che i contributi statali, diretti e indiretti, siano ricorrenti e non una tantum. Riguardo questi ultimi, nulla è specificato. Ora, è evidente a chiunque sia dotato di senso comune che fissare una soglia monetaria e non invece parametrata al totale dei ricavi o dell’attivo di bilancio delle entità che percepiscono tali contributi, rischia di essere fortemente disfunzionale.

 

Alla fine, la platea interessata potrebbe assommare a centinaia, forse migliaia di aziende. Il Mef dispone di un numero così elevato di soggetti nominabili negli organi di controllo? Ci sarà un listone di professionisti a cui attingere, beneficiari di enormi flussi di ricavi? Ma soprattutto, sino a che punto il “controllo” del Mef sarà di tipo neutrale e non anche di indirizzo più o meno “subliminale” dell’attività dei beneficiari delle somme?

Se da un lato l’esigenza di controllare l’uso di risorse pubbliche appare commendevole, dall’altro si ignora che tale controllo è realizzabile anche in modi meno invasivi. Forse si tratta di iniziativa per indurre le entità beneficiarie a rifiutare i contributi pubblici per non trovarsi in casa il Mef che tutto vede, anche in termini di strategie aziendali? Immaginate un’azienda che fattura cento milioni di euro annui, e riceve contributi pubblici per 100 mila euro. Dovrebbe mettersi in casa un revisore del Mef? Farebbe prima a rifiutare i soldi pubblici, e forse la norma ha anche questo obiettivo.

 

C’è tuttavia una categoria di imprese che potrebbe essere messa sotto controllo in modo rilevante: l’editoria. Non solo le testate che ricevono aiuti diretti (qui la lista per il 2023) ma anche quelle che beneficiano indirettamente, ad esempio sotto forma di crediti fiscali per carta ed elettricità. Avremo collegi sindacali con rappresentanti del Mef praticamente in ogni editore italiano di testate giornalistiche?

Un cinico potrebbe obiettare che l’influenza della politica sui giornali si esprime anche senza bisogno di mettere un commercialista o avvocato, collezionista di gettoni, negli organi di controllo aziendali. Non avrebbe tutti i torti.

Aziende private nella spending review pubblica

Ma è nel comma 4 dell’articolo 112 che si cela la bomba a orologeria: l’estensione della spending review ai percettori di contributi pubblici definiti dal comma 1. Non ci credete? Leggete:

È stabilito, in particolare, che le società, gli enti, gli organismi e le fondazioni di cui al comma 1, a decorrere dal 2025, non possono effettuare spese per l’acquisto di beni e servizi di importo superiore al valore medio sostenuto per le medesime finalità in un periodo base, individuato, limitatamente ai soggetti contemplati dal presente articolo, nel triennio 2021-2023. 

Ora, come sia possibile che aziende, che teoricamente stanno su un mercato, debbano veder limitata la propria eventuale espansione al dato storico del triennio 2021-23, è assurdo. Se avessero in atto un’espansione motivata da considerazioni strategiche, che farebbero? Qui la risposta la troviamo nella relazione tecnica alla legge di bilancio, grassetto mio:

L’estensione dell’applicazione delle suindicate misure di contenimento è volto a incentivare, anche con riguardo alla platea dei destinatari della presente norma, l’adozione di processi di governo e di controllo della spesa in linea con gli obiettivi generali di finanza pubblica, senza tuttavia pregiudicare l’operatività e il perseguimento delle finalità istituzionali, atteso che le misure di contenimento oggetto di estensione prevedono un meccanismo che consente di aumentare la capacità di spesa in misura corrispondente alle maggiori risorse proprie acquisite rispetto al periodo di confronto.

Tradotto: trovatevi risorse non pubbliche, e nessuno vi intralcerà. Anche qui, occorre distinguere: se parliamo, come recita l’articolo, di “enti”, “organismi” e “fondazioni”, cioè entità private ma beneficiarie di contributi pubblici, il concetto ha certamente senso, vista la proliferazione di entità del genere che finiscono col socializzare i loro costi in base a un non meglio specificato criterio di merito, definito dalla politica. Questi sono, a tutti gli effetti, costi della politica. Se invece parliamo di aziende, cioè entità che vendono prodotti su un mercato, ne ha assai meno. 

 

Campo di applicazione vastissimo

Per farla breve, la norma scritta in questi termini appare avere un campo di applicazione vastissimo e pervasivo. L’Italia diventerebbe una sorta di Cina, con esponenti del Mef al posto dei quadri di partito e di riservisti dell’esercito. O una specie di Ungheria, per usare paralleli a noi geograficamente più vicini. Perché se è vero che il controllo della destinazione dei soldi dei contribuenti è cosa buona e giusta e che i costi della politica sono ovunque, è parimenti vero che occorre evitare che la spesa pubblica divenga strumento di controllo politico pervasivo dell’attività delle aziende. Perché anche quelli sarebbero costi della politica, e molto elevati. Se invece le entità aziendali senza aiuti pubblici semplicemente non esisterebbero, bisognerà fare un’ulteriore approfondita riflessione. Ma proprio per questo motivo non ha senso fissare una soglia monetaria alla norma.




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