Le pensioni e il governo della signora Tina
Il governo riduce il taglio all'extra rendimento del sistema retributivo per alcuni dipendenti pubblici, ma resta il dato di fondo: non ci sono alternative al contenimento anche cruento della spesa pensionistica.
Il governo fa una parziale retromarcia sulle pensioni di alcune categorie di dipendenti pubblici, temendo che l’impatto sul comparto sanitario, in termini di uscite anticipate di personale, possa risultare esiziale. Ma anche se l’emendamento alla legge di bilancio venisse confermato nei termini annunciati, il risparmio di spesa previdenziale di lungo termine resterebbe sostanziale, confermando il “realismo” dell’esecutivo (leggasi stato di disperata necessità) e assestando l’ennesimo ceffone ai proclami su Quota 41 e altre amenità.
ABOLIRE UN EXTRA RENDIMENTO DEL SISTEMA RETRIBUTIVO
Vediamo che è accaduto: con l’ormai famigerato articolo 33 della legge di bilancio 2024 si prevedeva il ricalcolo delle pensioni di alcune categorie di dipendenti pubblici (medici ospedalieri, dipendenti degli enti locali, ufficiali giudiziari e insegnanti di scuole elementari), che hanno iniziato a lavorare dalla metà degli anni ’80, e che dunque hanno versato contributi nel regime retributivo.
Il ricalcolo abolisce il notevole vantaggio goduto da queste categorie sul rendimento della quota retributiva della pensione, per chi ha lavorato anche solo un giorno in quel regime. La relazione tecnica della legge di bilancio prevedeva, nella versione originaria, per il 2024 un risparmio di poco più di 10 milioni di euro, per circa 31 mila pensioni tagliate. Ma in venti anni le persone coinvolte raggiungerebbero quota 700mila, per un risparmio annuo di circa 2 miliardi di euro.
Preoccupato dalla forte reazione dei sanitari, oltre che dall’aver prodotto un incentivo che avrebbe rischiato di sguarnire ulteriormente il servizio sanitario nazionale, il governo ha rifatto i conti e gli incentivi. Nell’emendamento si prevede che chi esce nel 2023 e dal 2024 con i requisiti di vecchiaia non avrà decurtazioni all’assegno pensionistico, mentre chi va in pensione anticipata da quest’anno potrà perdere sino a 3.000 euro annui. Previsto però, per il solo personale sanitario, un décalage che riduce di un trentaseiesimo il taglio per ogni mese in più di permanenza sul posto di lavoro: quindi con tre anni di lavoro la riduzione è azzerata.
Basterà per evitare nuovi scioperi? Non sappiamo ma l’accoglienza iniziale non è stata particolarmente favorevole, oltre ai rischi di incostituzionalità legati all’applicazione al solo personale sanitario del nuovo sistema di incentivi. Sul piano finanziario, la misura produce ben 21 miliardi di risparmi, e il suo apparente ridimensionamento viene finanziato col solito espediente dell’allungamento delle finestre di uscita: 3 mesi per chi matura i requisiti nel 2024, 4 mesi nel 2025, 5 nel 2026, 7 nel 2027, 9 nel 2028.
QUOTE E DECURTAZIONI
Se non avete ancora cambiato canale, proviamo a commentare la ratio dell’intervento. In primo luogo, eliminare un privilegio del sistema retributivo pro rata limitato ad alcune precedenti gestioni di dipendenti pubblici. Ci può stare? Sì, se riusciamo a superare le perplessità per la retroattività dell’intervento. Il punto è che, stante la condizione dei conti pubblici, di queste retroattività ne vedremo sempre di più. Non è propriamente un caso che i tecnici del MEF abbiano scovato questo extra rendimento previdenziale tra le pieghe di decenni di regimi stratificati e inglobati, sulle note di “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato“.
La polemica politica e giornalistica ha già suggerito che questo correttivo porta a introdurre nel sistema una sorta di “Quota 46”, visto che per andare in pensione anticipata oggi servono 42 anni a 10 mesi per gli uomini e uno in meno per le donne, e che le categorie di dipendenti pubblici interessati, per non subire decurtazioni, dovranno trattenersi al lavoro per almeno altri tre anni, portando quindi la quota a ridosso di 46, e 45 per le donne.
La domanda è: come si concilia questa stretta, sia pure limitata ad un sottoinsieme sin qui privilegiato di dipendenti pubblici, che godono di rendimenti altissimi per la quota retributiva (introdotti nel remoto 1965), con i proclami della maggioranza, e soprattutto dei leghisti, di puntare a pensionare tutti a Quota 41, “in una prospettiva di legislatura”?
Si concilia, nella misura in cui siamo qui per prenderci per i fondelli. Ad esempio, basta togliere i livelli minimi dell’assegno pensionistico e, volendo, si riesce a mandare in pensione anche prima di quota 41. C’è il piccolo dettaglio che i pensionati così creati avrebbero, come “progetto di vita”, quello di sfuggire alla fame, ma la promessa sarebbe formalmente rispettata.
Il punto è uno ed uno solo: questo governo, per vincoli finanziari crescenti, è costretto ad agire in questa direzione perché l’alternativa sarebbe una crisi di mercato finanziario. Con buona pace dei proclami di campagna elettorale. E non ci sono alternative, perché al governo resta la Signora TINA. La quale è stata posta al comando delle operazioni da decisioni di precedenti esecutivi, ad esempio la famosa Quota 100, a cui ha partecipato la stessa Lega.
Ma anche dal tentativo di suicidio di un intero paese, che forse avrà successo: il Superbonus. O, meglio ancora, da tutte quelle misure di politica economica che, lungo i lustri, hanno abbattuto il potenziale di crescita del paese, consegnandogli la pistola con cui spararsi, in presenza di una depressione demografica.
FAME E AUTOFAGIA
Per tutte queste concause di stress finanziario, per le pensioni c’è una sola strada: la fame. Chi potrà, si spenderà il patrimonio accumulato dalle precedenti generazioni, a integrazione dell’assegno pensionistico. Da sinistra, si moltiplicheranno le piattaforme elettorali basate su aumenti di tassazione, ordinaria e straordinaria, per sostenere le pensioni. E saranno bocciate da quanti vorranno evitare di mettere a rischio il proprio patrimonio, destinato a integrare pensioni sempre più esili. Se invece passeranno, si tratterà dell’ulteriore forma di autofagia nel paese che divorò se stesso. Un po’ come sussidiare il salario minimo.
Non sto dicendo nulla di inedito, partendo dalla rettifica di una condizione di “privilegio” pensionistico che il tempo e la demografia hanno mostrato essere insostenibile. Vorrei solo segnalare che l’attuale esecutivo non perseguirà i suoi fantasmagorici obiettivi di campagna elettorale, ma quello era già chiaro da tempo. Persino alle agenzie di rating, pensate. Al più, manterrà gli obiettivi formali, come quota 41, dando loro la parvenza di una punizione divina (in pensione senza cena), ma affermando di aver comunque salvaguardato la “libertà di scelta”.