mercoledì 1 luglio 2020 - Pino Mario De Stefano

Le mutazioni della partecipazione

In questi nostri tempi indecifrabili, la partecipazione politica sta subendo strane mutazioni "genetiche". Ma la più singolare di queste mutazioni mi pare quella che tende a ridurre la partecipazione a una semplice “ricerca del colpevole”.

Certo, sembra una strada facile e in discesa per declinare senza molto sforzo e impegno una forma “popolare”di partecipazione. Infatti sono sempre più numerose e più agguerrite e fameliche le squadre di cacciatori di colpevoli.

Basta scorrere le pagine dei social, o le pagine dei giornali o i talk televisivi, o anche le chiacchiere quotidiane, per rendersene conto.

Della classica idea della partecipazione politica democratica, che nella sua definizione più ampia, si riferiva a “ogni azione che direttamente o indirettamente miri a proteggere determinati interessi o valori (consolidati o emergenti), o sia diretta a mutare o a conservare gli equilibri di forza nei rapporti sociali” (Treccani), pare non resti quasi più nulla.

Oggi, la paura, l’insicurezza, la perdita di identità, infantilizzano e spingono alla ricerca della protezione e della “proiezione”, e, parallelamente alla individuazione del “capro espiatorio”, il sacrificio del quale sembra appagare per molti ogni bisogno di palingenesi sociale. 

Infatti, ai “vecchi” dibattiti sull’idea di società possibile, sulla strategia e sulle tattiche, sull’impegno personale o di gruppo, sul contributo che il cittadino può o deve dare al progresso della sua comunità, si sostituiscono ormai delle forme di war games à la carte combattuti senza mezzi tecnologici. War games che ovviamente, come nei combattimenti virtuali, lasciano le cose come stanno, anche quando sembrano finemente argomentati; però paiono soddisfare il bisogno psicologico di immaginare la morte del colpevole. 

Alla fin fine in questo tipo di “gioco della partecipazione politica”, non è neppure importante sapere chi vince o chi perde, ma piuttosto vedere chi “si schianta”, come ha scritto qualcuno.

Nell’idea classica di partecipazione si trattava di discutere o verificare le possibilità e le modalità della responsabilità e del contributo di singoli o di gruppi alle società a cui si apparteneva; partecipare significava magari impegnarsi in gruppi politici o nel volontariato o in associazioni culturali; nel tempo della partecipazione come ricerca del colpevole, invece, ci si accontenta di una specie di “soddisfazione vicaria”, che pare riesca ad appagare il risentimento dei singoli o dei gruppi, contro una collettività che non risponde ai loro desideri e bisogni.

Forse non a caso questa mutazione della partecipazione (più preoccupante del semplice deficit di partecipazione che caratterizza le democrazie contemporanee).si coniuga con la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, che trasformano il cittadino in adolescente e in un semplice spettatore, il cui dovere è, semplicemente, “dal divano”, partecipare ai tanti “video giochi” della politica, rincorrendo successive e precarie esperienze allucinatorie!

Il punto è che solo una vera e responsabile partecipazione politica è fondamento della democrazia e quasi cifra della libertà, perciò l’attuale crisi della partecipazione e soprattutto le sue mutazioni sono un caso serio per la democrazia e la nostra stessa libertà.

Forse sarebbe opportuno impegnarsi a cercare una prospettiva diversa, dalla quale far emergere o recuperare una fondata motivazione per la partecipazione: questo sarebbe un bel lavoro in cui impegnare le proprie energie, nei diversi ambiti culturali, educativi, e nella comunicazione in genere.

Ma da dove partire? 

Io trovo in alcune riflessioni di Julia Kristeva una direzione di ricerca interessante.

Nei suoi scritti intorno all’idea di un percorso verso una “terza modernità”, la Kristeva propone come centrale un tema che oggi sembra controcorrente, e su cui invece sarebbe il caso di indagare, e scavare anche dal punto di vista antropologico. Si tratta del tema dello “straniero”.

È una proposta che, in un certo senso, ha il significato di un “ritorno alle origini”; come è richiesto nei momenti critici della storia umana. Ritorno alle origini, in questo caso, è recuperare una condizione originaria dell’essere umano, come fondamento per ripensare e motivare diversamente anche l'esigenza della partecipazione alla “cosa pubblica”.

Sì, in questo caso, cominciando con l’accettare che ognuno di noi nascendo approda al mondo da “straniero” vulnerabile e bisognoso: si tratta cioè di imparare a prendere atto che “io sono uno straniero, costitutivamente”. 

Tutti i grandi testi più antichi, letterari o religiosi, descrivono i protagonisti all’origine delle civiltà quasi sempre come“stranieri”. Gli antichi sembravano convinti che quella dello straniero fosse la condizione originaria e normale dell’essere umano. E non la consideravano una limitazione o una macchia.

Perciò, tornare oggi alle origini significa recuperare e accogliere consapevolmente questa condizione originaria, e fondare su di essa l’ideale della partecipazione.

Anche se le società oggi si frantumano in tribù, per le quali la solidarietà trasversale con gli “altri” diventa quasi “tradimento”, il dato difatto da cui partire, chiarisce Julia Kristeva, è che “ognuno di noi è un altro”.

Appropriarsi della originaria e comune condizione di straniero potrebbe favorire una nuova possibile modalità di partecipazione. 

Solo “a partire dal momento in cui l’uomo si rivela [e riconosce] straniero, ossia in cerca di un Paese che non esiste, - un Paese che non è solo il mio o il tuo ma il nostro, di noi umani - si pone la questione ineluttabile dell’universalità” e della comune partecipazione a questa ricerca. Solo questa consapevolezza consente di andare verso una forma di “nuova alleanza“ degli “stranieri”. E quindi verso una radicale fondazione di una autentica partecipazione, in quanto solidarietà trasversale.

Una forma di partecipazione che non funziona, come nota Martha Nussbaum, a partire da un semplice ragionamento ma si radica anche sull'immaginazione e il sentimento, e cioè su quella capacità di trascendenza di sé, che mi fa immaginare cosa si prova ad essere nella situazione di altri “stranieri”.

Complicato? Ma è questo il bel lavoro da fare perché la partecipazione non sia solo un appello o un “compito”, ma una modalità dell’esistere insieme.

Foto: Tim Gouw/Flickr




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