martedì 8 settembre 2020 - Aldo Funicelli

Le inchieste di Presadiretta: lavorare meno e lavorare tutti

Lavorare meno, meglio e tutti. Guadagnando anche di più e vivendo meglio: non è un'utopia ma è una ricetta che potrebbe farci uscire dalla crisi, perché è stata già applicata in Italia e in Europa.

Durante il lockdown 4 milioni di italiani hanno imparato a lavorare a casa, con i loro strumenti, assieme a tutta la famiglia: un doppio lavoro per le donne italiane.

Il servizio di Presa diretta di ieri sera è partito raccontando le loro storie: cercare di lavorare, aiutando i figli coi compiti, essere alle prese con la connessione internet che a volte non c'è.

Paola, una redattrice, ha dovuto lavorare da casa con un figlio con problemi, senza più nessun supporto da un giorno all'altro.

A volte il computer per lavorare era conteso coi figli che dovevano seguire le lezioni online e così, per recuperare, si lavorava anche sabato e domenica.

Questo tipo di lavoro domiciliare non ha nulla a che fare con lo smart working: le persone devono avere l'autonomia di scegliere, il dipendente deve essere responsabilizzato e i capi devono cambiare filosofia, in come gestiscono attività, progetti e lavori.

Lo smart working è legge dal 2017: la giornalista di Presadiretta ha riportato degli abusi, come persone che erano costrette a mandare report delle attività quotidiane più volte, obbligo di timbratura elettronica, pena la perdita di ore di permesso.

Nessun controllo dell'orario, su cui non è previsto alcun straordinario il che significa che molte persone hanno perso dei soldi.

Ci sono storture, ma nello smart working c'è anche l'idea che nella produttività non c'è necessariamente il dover timbrare il cartellino.

In Italia in media lavoriamo di più degli altri ma con minore produttività (qualunque cosa significhi): ma ci sono delle eccezioni, come le aziende della motor valley emiliana.

A partire dalla Ducati: dal 2014 è stato introdotto un sistema di turni su 30 ore, a parità di salario, dopo un referendum votato dai dipendenti.

Ducati ha preso come riferimento il modello di gestione tedesco, essendo stati comprati dalla Audi: grazie alle turnazioni le persone hanno maggior tempo per sé stessi, aumentando occupazione e produttività.

Alla Lamborghini, gruppo Volkswagen, lavorano 35 ore a settimana: la riduzione di ore è stata accompagnata con investimenti sulla produzione, in modo che si lavorasse meglio, con minor sforzi delle persone. Non solo, l'azienda investe anche sull'autoformazione, riconoscendo un premio a chi completa il ciclo di studi.

Alla Lamborghini si premia il metalmeccanico che si laurea in filosofia. E poi permessi aggiuntivi per motivi familiari, visite mediche retribuite, visite per il veterinario.

Se crediamo nell'innovazione tecnologica, dobbiamo anche credere nell'innovazione sociale – conclude l'intervista il responsabile del personale Umberto Tossini.

Alla G.D. le lavoratrici godono di una flessibilità massima in ingresso e in uscita, consentendo loro di fare commissioni all'inizio, o anche visite, che si recuperano a fine giornata.

L'idea che il padrone, il capo, debba controllare il lavoratore è qualcosa del passato: le aziende che implementano questo sistema di cogestione delle imprese si salveranno meglio dalla crisi, spiega un sindacalista a Teresa Paoli, perché è un modello sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale.

L'idea di lavorare meno circola in Europa: l'hanno proposta in Germania, in Finlandia e anche nella regione della Valencia in Spagna.

In Neo Zelanda la Prima Ministra ha proposto alle sue imprese la settimana da 4 giorni: questa flessibilità consentirà loro di poter viaggiare di più.

E' un momento eccezionale e dovremmo essere capaci di prendere delle decisioni eccezionali, racconta a Presadiretta: alla Perpetual Guardian hanno preso alla lettera la proposta.

I 250 dipendenti lavorano già 4 giorni a settimana, a stipendio pieno. Il CEO si chiama Andrew Barnes ed è il fondatore del movimento “4 Day Week Global”: “i dipendenti scelgono come lavorare, alcuni si prendono un giorno libero, altri due mezze giornate, altri arriveranno in ritardo cinque giorni alla settimana, o torneranno a casa presto. Ciò che conta è che cosa li fa lavorare meglio.”

E' calato lo stress, le persone ammettono di lavorare meglio se lavorano su 4 giorni e non su 5, si riduce il divario di genere tra genitori (che ora hanno più tempo per i figli): “stiamo dando alle persone qualcosa che non possono comprare, il tempo”.

Questo modello può essere adottato da tante aziende anche dopo la crisi per il Covid: la storia di Andrew Barnes è stata pubblicata in diversi paesi e si sta sperimentando ovunque, per esempio da Microsoft in Giappone, il paese dove il culto del lavoro è altissimo.

Anche in Italia c'è chi crede alla settimana da 4 giorni, sono i selezionatori di manager di alrto livello della Carter & Person, a Milano.

Col Covid abbiamo verificato l'aumento della produttività – spiega il CEO dell'azienda: se rispetti l'autonomia della persona, questa lavora meglio, perché quello che conta non sono le ore in cui lavoro, ma la qualità con cui lo fai.

Primo ospite in studio, il ricercatore e scrittore Giorgio Maran: in Italia si lavora di più ma con minore produttività, perché abbiamo pensato che servisse lavorare di più per colmare il gap con altri paesi.

I critici a questo modello sostengono che occorre prima aumentare la competitività: ma questa dipende da come facciamo le cose, non da quante ore lavoriamo, spendiamo meno di altri paesi in ricerca e sviluppo, perché abbiamo imprese piccole che non innovano, perché abbiamo aziende in settori decotti.

Se si lavorasse di meno, se ad un certo punto non si sfruttasse più il lavoro (con riduzione di stipendi e diritti), ecco che si inizierebbe ad innovare.

C'è una ipocrisia nel lavoro: chi ce l'ha lavora molte più ore di prima con maggior stress, mentre ci sono poi persone senza lavoro o con part time imposto.

Se si riduce l'orario, a pari salario, si riducono le disuguaglianze perché si spostano risorse verso chi lavora.

Eppure Confindustria (e anche molti giornalisti e esperti) non ne vuol sentir parlare: Presa diretta ha intervistato il presidente della federazione del Piemonte.

Prima si deve creare crescita, creare opportunità e poi se ne parla: ma cosa dovrebbero fare le imprese? Il governo dovrebbe dare soldi alle imprese per fare investimenti, per ammodernarle.

I salari per essere aumentati si deve ridurre il cuneo fiscale, continua Confindustria, che non è nemmeno d'accordo col blocco dei licenziamenti.

Riassumendo: lo stato dia soldi alle imprese, non le costringa a tenersi personale che non vogliono, consenta la spremitura a freddo del personale, poi vediamo.

In studio, a rispondere a questa visione, il segretario della CGIL Landini: rimodulare l'orario di lavoro è una proposta seria proprio con questa crisi, serve investire nella formazione delle persone, nell'innovazione dei prodotti.

Si può lavorare con meno ore, su turni spalmati su tutto il giorno, come alla Ducati.

Ma ci sono anche persone che vorrebbero lavorare di più e invece sono costrette al part time, con un salario inferiore.

Come si creano i posti di lavoro? Creando nuovi prodotti, puntando sulle nuove tecnologie, sulla formazione permanente.

Landini ha ricordato che gli esempi positivi citati dalla trasmissione siano frutto dalla contrattazione fatta coi sindacati.

Ci sono ancora problemi, nel rapporto con Confindustria: verrà firmato il contratto per la sanità privata, dopo 12 anni, ma rimane da firmare quello dell'alimentare e molti altri.

Sul legame salari-produttività: in Italia i salari sono inferiori se confrontati a quelli di altri paesi europei – ha spiegato Landini. In Italia stiamo facendo l'auto elettrica adesso, ricordando che in Italia abbiamo bassa produttiva e alta precarietà, dove si sono messi lavoratori contro lavoratori, con le catene dei subappalti e gare al massimo ribasso.

Dobbiamo ricostruire il mondo del lavoro, del welfare, degli ammortizzatori sociali, rifare una politica fiscale. Le aziende devono iniziare ad investire nel lavoro e nelle persone, superando la precarietà nel mondo del lavoro.

Il lavoro smart

Piero Angela aveva preconizzato il lavoro smart nel 1995: si chiamava telelavoro, lavoro a distanza.

Oggi, 25 anni dopo, con tutti i passi fatti dalla tecnologia, l'esempio di Angela, con i video pixellati, è preistoria.

A Fastweb lo smart working lo facevano già prima del lockdown: l'azienda non è più il luogo di lavoro, ma l'insieme delle relazioni tra le persone, racconta l'AD dell'azienda.

“E' proprio cambiata l'idea di azienda, siamo passati da una leadership gerarchica e verticale ad una leadership digitale e orizzontale”.

Questo è un modello apprezzato anche dai dipendenti, quelli intervistati, per la libertà che concede, perché consente un miglior bilanciamento tra la propria vita privata e il lavoro, poter stare più tempo coi figli.

Non si tornerà più indietro: uno studio del Politecnico di Milano mette nero su bianco l'aumento della produttività (questa parola torna più volte nel servizio) e lo dice anche una indagine della società Variazioni SRL, su 10mila lavoratori smart nel settore privato.

Ma ci sono anche elementi critici: la separazione tra vita privata e vita lavorativa, il non riuscire ad alzarsi dalla sedia, il dover lavorare nello stesso spazio coi figli.

Alla Engie EPS, dove producono le colonnine per la ricarica delle auto elettriche, si sono date delle regole: basta mail e basta lavoro dopo le 20, tanta pianificazione, possibilità di staccare dal lavoro se ci sono problemi familiari.

E poi un'ora di fitness, con benefici in salario se un dipendente partecipa alle iniziative legate alla salute.

“Il mondo non sarà più come prima”: il family working rimarrà alla Engie EPS per sempre, rassicura l'Amministratore dell'azienda.

Dopo Landini, Marco Bentivogli, ex segretario metalmeccanici CISL: ha scritto un libro dedicato al lavoro e anche allo smart working, essendone un grande fautore.

Si deve sgretolare il vincolo delle otto ore – racconta il sindacalista: il lavoratore deve conquistare le ore della sua vita: nel futuro sempre più lavori saranno remotizzabili, in Cina una miniera viene gestita in remoto da dipendenti grazie al 5G.

Bentivogli ha risposto a Sala, secondo cui lo smart working ha reso Milano una città fantasma: ma non è normale che un lavoratore di Saronno si sposti per chilometri per lavorare a Milano, non aiuta la persona e non aiuta Milano e la qualità della sua aria.

Le città si devono svuotare dal lavoro che si deve spostare nelle periferie, in HUB dove ritorna la socialità tra persone: la mobilità per andare al lavoro è uno spreco, è un costo non accettabile.

Lo smart working nel pubblico.

In Toscana il 95% dei dipendenti era a casa: negli uffici era presente solo il 5%, i tecnici che hanno gestito la parte tecnologica consentendo ai colleghi di fare riunioni e incontri virtuali.

Le persone e gli uffici hanno fatto un salto tecnologico di anni: c'è ancora da colmare il gap per le persone anziane, poco informatizzare, ma il pubblico ha lavorato, la macchina della regione non si è fermata.

Tenendo le persone a casa si inquina di meno, si rende l'aria delle città più pulita, si alleggerisce il traffico – citando uno studio dell'Enea. Perché allora nel pubblico non si punta decisamente su questa tipologia di lavoro?

IL governo ha messo in pista il POLA, il piano per il lavoro agile, di cui ne ha parlato il ministro Dadone: non tutti i lavoro possono essere fatti da remoto, c'è un divario territoriale nel pubblico (alcuni comuni sono poco digitalizzati), non tutti i servizi sono accessibili tramite SPID.

C'è ancora del lavoro da fare – ha ammesso la ministra: si deve colmare la formazione dei singoli lavoratori, si deve investire nella banda larga. Il personale deve essere formato per essere agile e flessibile, non dimenticandosi di chi già lavora nella PPAA da anni e non deve essere lasciato indietro.

La macchina della giustizia si è fermata durante il lockdown: molti processi son stati spostati al 2021 e molti Tribunali hanno fatto un loro protocollo per l'emergenza.

Tanta carta stampata che ha provocato solo caos, una giungla di provvedimenti giudiziari, diversi da Tribunale a Tribunale.

Un problema per gli avvocati e anche per i magistrati: si è perfino cercato di fare online dei processi, con risultati anche imbarazzanti (la linea che va e viene, le voci dei familiari che interrompono il rito processuale).

Ma c'è anche un altro problema: la rete informatica è chiusa, non è aperta all'esterno, da casa.

Alcuni esperimenti per aprire la rete sono stati fatti, usando programmi vecchi (TIAF), con scarsi risultati.

Il 75% dei cancellieri è stato messo in smart working ma ha potuto accedere solo alla casella di posta certificata: non avendo avuto dal ministero gli strumenti informatici, si sono organizzati portandosi i documenti a casa, fotocopiandoseli.

Nella giustizia la carta la fa da padrone, anche in uno all'avanguardia come quello di Torino: qui un intero piano dell'edificio è stato dedicato all'archivio degli atti, ma nemmeno è bastato, hanno dovuto affittare da un privato un capannone fuori Torino per conservare migliaia e migliaia di fascicoli, alcuni risalenti agli anni settanta.

Atti che dovrebbero essere conservati dall'Archivio di Stato e non dal Tribunale: ma l'Archivio di Stato non ha spazio sufficiente e così, siccome sono fascicoli che non si possono buttare, sono conservati lì.

Informatizzare la macchina della giustizia – commenta il giornalista - è ormai una drammatica urgenza: il problema è che questa macchina della giustizia dovrebbe funzionare in modo digitale sin dall'inizio, il parere del presidente del Tribunale Massimo Terzi, abolendo la materialità degli atti.

Siamo stati sordi e ciechi – ha raccontato collegato in studio, il procuratore Gratteri: si spendono risorse e tempo per ne notifiche cartacee, inviate ad avvocati.

Mentre si potrebbe ricorrere a delle notifiche telematiche: oggi migliaia di carabinieri girano il paese per inviare le notifiche cartacee.

Nel 2014 Gratteri aveva presentato le sue proposte, quando stava per diventare ministro con Renzi: di queste è passate solo il processo a distanza.

Si deve digitalizzare gli atti, certo, ma a monte si deve eliminare la carta: Gratteri ha raccontato che il suo ufficio non ha lavorato da casa, perché il sistema non lo consente.

Così a maggio le persone sono rientrate in ufficio e con lui seguiranno il maxi processo che comincerà il giorno 11 settembre.

La mancanza della connessione internet

Per poter lavorare in modo smart, serve una connessione internet degna di questo nome, mentre ci sono comuni, come Palestrina, senza rete.

Si chiamano “aree bianche” e si trovano anche vicino a grandi città, come Milano e Genova: l'Italia è tra i paesi meno digitalizzati, peggio di noi la Grecia e la Bulgaria.

Open Fiber avrebbe dovuto portare la fibra in tutti i comuni, ma il piano, vecchio di anni, è molto indietro dal colmare il gap.

L'assenza di una banda larga aumenta il divario tra grandi città coi piccoli comuni: se anche in questi fosse presente una buona connessione internet sarebbe un incentivo per ripopolarli, per riportare persone e aziende.

Il futuro del nostro paese passa dalla digitalizzazione: tutte le persone, tutti i comuni, tutti gli studenti e i docenti, al sud e al nord, hanno diritto alla banda larga e tocca allo Stato (e non al buon cuore dei privati) garantirla.

Le persone e le imprese, non devono essere costrette a spostarsi in zone più fortunate per lavorare.




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