lunedì 8 gennaio 2018 - Aldo Giannuli

Le “Primavere Arabe” a sette anni di distanza

Lo scorso 28 novembre Elio Catania ha pubblicato un’interessante analisi basata sulle dinamiche delle “rivoluzioni” contemporanee. Tali rivoluzioni, dall’inizio del nuovo millennio ad oggi, si sono manifestate nella forma “colorata” in diverse parti del mondo, dal Kyrghizistan all’Ucraina, dalla Georgia al Myanmar.

di Andrea Muratore

Nessun movimento ha però condensato in maniera tanto eloquente le istanze originarie dei sommovimenti politici del nuovo millennio quanto le cosiddette Primavere Arabe, che deflagrarono esattamente 7 anni fa: l’evento simbolicamente considerato come l’inizio del moto di proteste e rivolte che sconvolsero il mondo arabo tra il 2010 e il 2011 è generalmente considerato l’autoimmolazione del fruttivendolo tunisino Mohamed Bouazizi, avvenuta il 17 dicembre 2010 nella città di Sidi Bouzid.
Le Primavere Arabe furono fenomeni decisamente eterogenei nell’ampio arco compreso tra il Marocco e l’Iraq, ma furono caratterizzate da alcuni significativi elementi di convergenza:

• Generale rifiuto del sistema di governo clientelare, asfissiante, repressivo e inefficiente incarnato da buona parte dei regimi personalistici del Medio Oriente.

• Denuncia della mancanza di prospettive per una popolazione in larga parte giovane e penalizzata da elevati tassi di disoccupazione e insufficienti opportunità di impiego, studio formazione.

• Manifestazione dell’islamismo militante come principale forza organizzativa e trainante dell’opposizione a regimi in larga parte di matrice laica.

• Ruolo decisivo giocato dai mezzi di comunicazione di massa e dai social network come strumenti di organizzazione dei movimenti di base che gestivano la rivolta.


Tale mix incendiario si propagò sulla scia di un vero e proprio contagio emotivo che dalla Tunisia raggiunse tutti i Paesi mediorientali e si manifestò nelle più diverse maniere. A ciò si aggiunsero le decisive ripercussioni sulla geopolitica di una regione che aveva visto il “vaso di Pandora” scoperchiato dall’invasione dell’Iraq da parte degli USA di George W. Bush nel 2003.

Il successore di Bush, Barack Obama, nel 2011, si ritrovò nella difficile situazione di principale leader interessato all’evoluzione della dinamica delle Primavere Arabe e finì per concretizzare la discutibile decisione di garantire un’apertura di credito francamente eccessiva alle forze della Fratellanza Musulmana, avallandone di fatto la strategia di strumentalizzazione di proteste nate per la richiesta di sacrosanti diritti di base (cibo, servizi, lavoro) e trasformatesi in operazioni di regime change.

Come riportato da Mario Del Pero nel suo saggio “Era Obama”, la presenza nell’amministrazione Obama di numerosi liberal interventisti come Hillary Clinton, Samantha Power e Susan Rice favorì l’intervento dei Paesi NATO in Libia e la conseguente destituzione e uccisione di Gheddafi, mentre al contempo in Egitto Washington sostenne la caduta di Hosni Mubarak e offrì un’eccessiva copertura al suo successore Mohamed Morsi, alto esponente della Fratellanza Musulmana.

Oltre a Gheddafi, barbaramente trucidato, e Mubarak, anche il Presidente tunisino Ben Alì e il collega yemenita Saleh furono infine costretti a dimettersi sulla scia dell’ondata di proteste che sconvolsero la regione. La strenua resistenza di Bashar al-Assad evitò, al contempo, al rais di Damasco una fine analoga a quella di Gheddafi, ma la Siria fu precipitata in una sanguinosa guerra civile nella cui genesi non mancava lo zampino di Qatar e Arabia Saudita.

A sette anni di distanza, il caos scatenato dall’ondata di proteste della Primavera Araba e dalla loro strumentalizzazione da parte di precise correnti politiche, a loro volta incasellate e sdoganate dalle strategie geopolitiche occidentali, che con le “guerre umanitarie” di inizio millennio contribuirono a scompigliare il tavolo mediorientale, non si è ancora ricomposto.

Tutto il Medio Oriente è stato scosso da un movimento tellurico che ha avuto il suo epicentro in Siria, dove il legittimo governo di Damasco è riuscito infine, col sostegno di Russia e Iran, ad avere la meglio sull’onda lunga della Primavera Araba, degenerata ben presto nelle bande jihadiste di ISIS e Al-Nusra. La Libia e lo Yemen risultano al momento ingovernabili, mentre l’Egitto ha visto la repentina restaurazione dello status quo incarnato dal Generale al-Sisi, oggi saldamente al potere al Cairo. L’unico regime politico nato dalle Primavere Arabe che sembra contraddistino da una discreta stabilità è quello tunisino, sebbene il Paese risulti vulnerabile alla piaga dell’arruolamento jihadista, che pesca negli stessi strati socialmente svantaggiati che hanno alimentato con le loro voci una rivoluzione rimasta, in larga misura, tradita dai suoi stessi portavoce.

A sette anni di distanza, si può leggere la deflagrazione delle Primavere Arabe come la manifestazione di tensioni che da decenni covavano sotto la superficie dei Paesi mediorientali, ma che palesandosi in maniera tanto dirompente hanno finito per travolgere gli stessi portatori di istanze di cambiamento, presto egemonizzati dalla propaganda radicale e dalla tentazione del salafismo e dell’islamismo politico più estremista. Con la logica conseguenza di entità statali completamente distrutte e Paesi, come la Siria, che hanno individuato la via per la salvezza nella lotta senza quartiere a coloro che delle Primavere Arabe stesse si dichiaravano portavoce ed eredi.

Andrea Muratore




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