lunedì 16 settembre 2019 - Phastidio

Lavoro italiano nel secondo trimestre: ma che avrete da festeggiare?

Delle illusioni ottiche del mercato italiano del lavoro ho già scritto poco tempo addietro, in occasione del report mensile Istat di luglio. Ieri è stato pubblicato quello relativo al secondo trimestre: da aggiungere c’è poco ma da ribadire c’è sicuramente di più.

Primo punto: evitiamo, se possibile, di fare la ruota come invece fa qualche direttore di quotidiano con scarsa dimestichezza con l’analisi dei numeri economici ed assai più con il tifo politico movimentista. Nel secondo trimestre 2019, abbiamo il totale occupati che aumenta dello 0,6% (pare un boom, se lo proiettiamo su base annualizzata), eppure le ore lavorate flettono dello 0,1%, in maggior coerenza con l’andamento del Pil, rimasto invariato nel trimestre su base reale.

Sempre riguardo alle ore, osserviamo che i cali più pesanti sono in agricoltura e costruzioni, ma anche l’industria in senso stretto è in flessione trimestrale dello 0,2%. Inutile guardare al dato tendenziale, cioè alla variazione annuale, perché quel dato non è corretto per i giorni lavorati, e nel caso di specie risulta drogato. Più nello specifico:

Le ore lavorate per posizione dipendente diminuiscono dello 0,6% su base congiunturale e dello 0,9% su base annua.

Ribadiamo l’ovvio? Ma sì: un’economia in cui l’occupazione aumenta più delle ore lavorate è un’economia “anomala”, e che ha evidenti problemi. Di certo, una parte del calo di ore è imputabile a questo:

[…] le ore di cassa integrazione (Cig) crescono su base annua da 6,3 a 9,3 per mille ore lavorate.

Per quelli tra voi che hanno robuste attitudini computazionali, sarebbe un aumento su base annua della Cig di circa il 50%. Che, come noto, viene catturata dalle statistiche come “occupazione”. Un mercato del lavoro davvero vibrante, in effetti.

Ma il calo delle ore lavorate ha anche un’altra determinante, il part-time, per giunta in netta prevalenza involontario. Quello di chi vorrebbe lavorare a tempo pieno ma non riesce a trovare. Sono i part-timers. A cui Istat dedica un punto di trattazione specifica:

Nel secondo trimestre 2019 i lavoratori a orario ridotto sono 4 milioni 483 mila e costituiscono il 19% del totale degli occupati. Le donne rappresentano il 73,4% dei lavoratori a tempo parziale. L’aumento tendenziale dell’occupazione nell’ultimo trimestre è stato sostenuto interamente dal part time, cresciuto in un anno di 83 mila unità (+1,9%) a fronte della stabilità del tempo pieno.

Che questo aumento sia frutto della crescente terziarizzazione dell’economia, ci può stare. Che ciò eviti di creare una classe di working poor, assai meno. Ma la tendenza alla creazione di part-time è ritornata con forza negli ultimi trimestri:

Il contributo del part time all’aumento dell’occupazione si è di fatto azzerato tra la fine del 2017 e il 2018 quando la crescita è stata trainata dal tempo pieno. Il lavoro a tempo parziale ha ripreso forza negli ultimi tre trimestri tornando ad essere l’unica componente in aumento nel secondo trimestre 2019.

Guardare i numeri degli occupati permanenti (il famoso “posto fisso”), ripartita tra tempo pieno e tempo parziale: su 112 mila in più su base annua, ben 97 mila sono part-time!

E ribadiamo, si tratta di part-time subìto, non scelto:

La crescita di oltre 1 milione di occupati part time dal periodo pre-crisi (+31,2% tra il secondo trimestre 2008 e il secondo 2019) è tuttavia dovuta soltanto al part time di tipo involontario – svolto in mancanza di occasioni di lavoro a tempo pieno – a fronte della diminuzione di quello volontario (rispettivamente +1 milione 517 mila e -451 mila); nel periodo, l’incidenza del part time involontario sul totale dei lavoratori a tempo parziale è salita dal 41% al 65%.

 

Altro punto da considerare, per gli amanti delle decontribuzioni miracolose, selettive e, soprattutto, temporanee:

L’indice destagionalizzato del costo del lavoro per Unità di lavoro dipendente (Ula) cresce in termini congiunturali dello 0,1%, sintesi di un aumento dello 0,1% delle retribuzioni e dello 0,3% degli oneri. In termini tendenziali il costo del lavoro aumenta del 2,4%, quale risultato di una crescita dell’1,6% per le retribuzioni e del 4,5% per gli oneri. Il maggior contributo degli oneri sociali alla crescita del costo del lavoro è da attribuire all’esaurimento degli effetti di decontribuzione dei provvedimenti attuati a partire dal 2015 e ad un graduale ritorno ai valori precedenti.

Tradotto: scadute le decontribuzioni triennali legate al Jobs Act, il costo del lavoro torna a salire. Incredibile, vero? Fate un passo in più: con un costo del lavoro in crescita annua media del 2,4%, quante saranno le imprese italiane che possono vantare un aumento dei ricavi di almeno il 2,4%? A naso, credo non moltissime. Quindi, pressione sui margini e costante rischio per l’occupazione.

Tutto ciò premesso, e ricordando che le dinamiche demografiche aiutano ad innalzare il tasso di occupazione e ridurre quelli di disoccupazione ed inattività, la domanda resta sempre quella: ma che avrete mai da festeggiare, con questi dati?




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