lunedì 12 luglio 2021 - angelo umana

La terra dei figli

La terra dei figli del regista Claudio Cupellini è un ottimo film per la sua stessa fattura e per i sentimenti che evoca, lascia ben sperare sul destino dell'umanità. Siamo in territori lagunari o lacustri dell'Alto Adriatico (di quelle parti sono diversi attori qui recitanti, ma tutto il cast è di interpreti reduci da opere di valore), uomini senza nome e identità vi vivono in condizioni primordiali, uno nemico dell'altro a difesa del proprio territorio in una società post-industriale.

Qualcosa dev'essere accaduto, come un'involuzione, una regressione a condizioni di lotta per la sopravvivenza in quell'ambiente. Qui la post-apocalisse è detta derivare dai “veleni” di cui il territorio è stato disseminato, evento non solo immaginario ma vicino alla nostra realtà attuale. Non si può non pensare a condizioni simili, post-apocalittiche, rappresentate ad esempio in The Road di John Hillcoat: ambedue i film sono tratti da libri, The Road dall'omonimo romanzo di Cormac McCarthy e La terra dei figli dalla graphic novel di Gipi.

“Padre” (Paolo Pierobon) giura di non aver rubato qualcosa al terribile Aringo, uomo truce, sguardo torvo e sempre armato a difendere il suo territorio (ma si tratta di Fabrizio Ferracane, indimenticabile e pacifico Luciano, “fratello maggiore” in Anime Nere), lo giura su tutto quello che non c'è più, e sembrano uomini che han perduto tutto, anche un po' di umanità verso l'altro. Da quanto tempo non ti fidi di qualcuno? è detto nel film, e sembra una dimensione di cui l'umanità corrente è affetta. “Figlio” è quattordicenne (l'attore è il ventenne Leon de la Vallée, interpretazione superba), non sa nulla del mondo o almeno di cosa c'è oltre la chiusa, dedito anch'egli alla soddisfazione di bisogni immediati, non ha una madre e pertanto non educato ad alcuna affettività. Sembra non conoscere nulla dell'essere al mondo, vorrebbe sapere dal padre che cosa egli scrive su un quaderno segreto quando è sera, ma è respinto rudemente.

La morte del padre è qualcosa a cui non è preparato, è dispiaciuto ma non sa ancora cos'è il pianto. I cancelli della chiusa gli verranno aperti dalla “strega” (Valeria Golino), vuole vedere cosa c'è aldilà di essa ma soprattutto cercare qualcuno che gli sappia leggere cosa “Padre” aveva scritto nel quaderno, invoca chi incontra nella sua fuga di leggergli i ricordi del padre. Piace pensare che il quaderno sia simbolo di cultura e trasmissione di memoria, qualcosa che salvi l'essere umano da atteggiamenti bestiali. Esso è però l'unica eredità che del genitore resta a Figlio.

Quei luoghi paiono essere diventati terreno di conquista per nuovi despoti, che si avvalgono di uomini asserviti e senza ricordi, i quali del resto portano paura e dolore. Despoti e loro “bravi” (in senso manzoniano) che si sono autoperdonati, senza alcuna civiltà né rimorso. Eppure i “giusti” ci sono, oltre a Figlio che cerca un po' di umanità, resta Maria (Roveran, impossibile non citarla per il ruolo in Piccola Patria) e finalmente “il Boia” (Valerio Mastandrea), uno che si ravvede e non si perdona più, l'unico che saprà leggere a Figlio i ricordi del padre. Un finale che stimola un poco le ghiandole lacrimali, ma ci sta.

 




Lasciare un commento