mercoledì 12 giugno 2013 - UAAR - A ragion veduta

La storia di Ayala, a cui i rabbini vogliono togliere i figli

L’appartenenza si trasmette per via materna, nell’ebraismo. E tuttavia, quando la madre non sembra molto convinta dalla prassi ebraica, si può tranquillamente affidare i figli al padre. È quanto emerge da una vicenda, dai risvolti drammatici, di cui dà notizia il quotidiano israeliano Haaretz.

Una donna cresciuta in una famiglia ultra-ortodossa, nota con il nome di Ayala, si sposa appena diciottene con un pio haredi la cui occupazione è lo studio intensivo dei testi sacri presso una yeshiva (scuola religiosa). Inizia a sfornare figli e si adatta al ruolo di segregata in casa per crescere i suoi bambini, tagliata fuori dalle vecchie amicizie e relazioni. La donna però è curiosa, vuole imparare e interrogarsi, diventa insofferente verso il marito oppressivo. La coppia si rivolge ogni tanto ai rabbini, che dicono a lei di essere rispettosa nei confronti del marito.

A un certo punto della sua vita Ayala matura dei dubbi sulla religione, fino a non sentirsi più credente. Il marito ovviamente la considera snaturata, dice che le donne non devono farsi domande di questo tipo. Ma lei trova notizie e riflessioni interessanti su internet, il suo passaggio all’incredulità è travagliato. Lo shock arriva quando il sesto figlio che partorisce, una bambina, nasce morta. Si trova imprigionata in una realtà che non le appartiene e dalla quale è difficilissimo uscire, quella degli integralisti ultraordossi. Chiede al suo rabbino di poter usare contraccettivi, ma le viene negato. Quattro mesi dopo il parto andato male rimane nuovamente incinta.

Si imbatte in un forum sul web di haredim che hanno perso la fede ma che non vogliono rompere con la tradizione per non dividere la famiglia. Quindi si iscrive a sociologia, ma la decisione è malvista dalla comunità, che si offre di pagarla affinché interrompa gli studi. La sua ‘seconda vita’ e i contatti con gli ‘eretici’ vengono scoperti dal marito, che chiede il divorzio.

Comincia l’odissea legale per Ayala. Ci si rivolge a un tribunale civile, ma il marito poi tenta di riappacificarsi con la moglie, o almeno così fa credere. Pochi giorni dopo la chiusura del procedimento civile, l’uomo si appella a un tribunale rabbinico chiedendo la custodia dei figli. In Israele infatti è ammesso, all’insegna del comunitarismo che garantisce privilegi alle comunità religiose integraliste, che le corti rabbiniche deliberino su figli e alimenti in caso di separazione. Per il legale della donna la mossa del marito è chiaramente strumentale, volta a dirottare il procedimento dalla corte laica a qualla religiosa, che favorisce l’uomo. Intanto Ayala rimane a casa con il marito, che la umilia e tenta di toglierle i figli. Poi si trasferisce altrove e viene provvisoriamente concessa la custodia congiunta. Ma il marito insiste, tanto che la donna viene accusata di assumere droghe e viene detto ai figli che fa parte di una setta e che la sua casa è maledetta.

Il caso è arrivato alla Corte d’appello, cui la donna ha fatto ricorso grazia all’aiuto economico di un’associazione. La corte dovrà decidere se rimandare gli atti a un tribunale civile: un caso che rischia di far esplodere anche in Israele la contraddizione stridente tra gli spazi concessi alla giurisprudenza comunitarista e il quadro della legge civile , che si presume laica ed egalitaria. Problema d’altronde simile a quello delle corti islamiche in Gran Bretagna, dove proprio le donne sono la parte più debole.

Alle donne israeliane è stato nel frattempo riconosciuto il diritto di poter recitare la Torah presso il Muro del Pianto a Gerusalemme, con tanto di scialle tradizionale (tallit) e stringhe di cuoio (tefillin), nonostante la contrarietà degli più ortodossi, che ha dato luogo a molte tensioni. Si tratta di un’altra questione che fa discutere: per molte donne ciò rappresenta un passo avanti ‘femminista’, ma può anche essere interpretato come un voler metabolizzare e riproporre proprio quelle logiche integraliste che tengono le donne in uno stato di minorità, piuttosto che puntare a un loro superamento.

Le confessioni religiose sono in prima fila nel combattere il riconoscimento del diritto all’adozione da parte degli omosessuali. Un bambino ha bisogno di una madre e di un padre, dicono. Salvo poi derogare spesso e volentieri da tale assunto. Il fine ultimo della fede, di ogni confessione religiosa, è del resto la propria riproduzione nel tempo. Tutto il resto — le vite di donne, uomini e bambini, i principi della religione stessa — non conta. Lo Stato esiste anche per porre un limite a certe deliranti manie di grandezza. Ayala, purtroppo per lei, si è imbattuta con uno Stato connivente. Come la stragrande maggioranza degli stati di questo pianeta.




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