martedì 12 gennaio 2021 - Slow Revolution

La soia e la deforestazione: la produzione è più che raddoppiata in un decennio

Il Cerrado, ecoregione di Brasile, Paraguay e Bolivia che ospita il 5% della biodiversità del mondo e considerata dal WWF la savana tropicale biologicamente più ricca del mondo, è in pericolo. A minacciare l’ecosistema di 200 milioni di ettari è l’industria della soia in cerca di nuovi terreni fertili dove coltivare il legume sempre più richiesto al mondo, in particolare come alimento per gli animali da allevamento. Un’espansione che avrebbe già invaso quasi il 50% del territorio d’origine e che mette in serio rischio la sua sopravvivenza con effetti drammatici per clima, la biodiversità e i diritti dei popoli indigeni. La denuncia arriva da “La soia e la deforestazione”, uno studio francese firmato da Reclaim FinanceMighty EarthCanopée Forêts VivantesSumOfUs e consultabile qui.

Un disastro per ambiente e diritti

Nel documento elaborato dalle quattro Ong si ricorda come la produzione di soia sia più che raddoppiata nell’ultimo decennio con conseguenze devastanti per la preservazione delle foreste e delle aree naturali del pianeta. Un andamento particolarmente forte in Sud America dove la coltivazione del legume, trainata soprattutto dal continuo aumento del consumo di carne e latticini, è diventata una delle principali cause della deforestazione del Cerrado con la conversione annua di 690.000 ettari di ecosistemi naturali, un’area 65 volte quella di Parigi. Un ritmo superiore a quello registrato in Amazzonia nell’ultimo decennio che ha portato al raddoppio delle esportazioni di soia brasiliana fino ad arrivare alla produzione record di 125 milioni di tonnellate raccolte nel 2019/2020. L’esito è che già il 50% dei 200 milioni di ettari del Cerrado sarebbero compromessi con conseguenze gravi per la lotta ai cambiamenti climatici, per la tutela della biodiversità e dell’ambiente e per il rispetto dei diritti delle popolazioni autoctone.

Secondo le quattro ong la conversione in atto nel Cerrado compromette la capacità di assorbimento di anidride carbonica dell’ecoregione (stimata in 13,7 miliardi di tonnellate/anno) e determina l’emissione di 60 milioni di tonnellate di CO2/anno, l’equivalente del rilascio di gas serra annuo di 13 milioni di auto. Il disboscamento della vegetazione autoctona provoca, inoltre, la perdita diretta dell’habitat per molte delle oltre 4.800 specie endemiche, alcune a rischio estinzione come il giaguaro, il lupo dalla criniera e il cervo delle paludi. Rilevanti sono pure i danni ambientali con la mutazione del regime delle piogge e delle risorse idriche, compromesse anche dall’alto consumo di acqua delle monoculture di soia. Le conseguenze sono l’incremento della desertificazione, dell’erosione del suolo e del rischio inondazioni, ma pure il calo della produzione idroelettrica, principale fonte energetica del paese. Nel Cerrado, infatti, hanno la sorgente fiumi che alimentano 8 dei 12 bacini idrografici del Brasile. Non ultimo, i pesticidi usati per le colture contaminano l’acqua a danno soprattutto delle popolazioni locali. Comunità indigene soggette anche a intimidazioni, se non a vere e proprie violenze per non ostacolare i progetti d’espansione degli agricoltori.

Quattro aziende nel mirino delle Ong

I principali responsabili della deforestazione nel Cerrado sarebbero le quattro aziende che detengono il 56% del commercio mondiale delle soia: ADM (Archer Daniels Midland), Bunge, Cargill e Louis Dreyfus. Si tratta del cosiddetto gruppo ABCD che, insieme alla brasiliana Amaggi e alla cinese COFCO, hanno rappresentato il 66% del rischio di deforestazione direttamente collegato all’espansione della soia nel 2017. In particolare, le Ong denunciano la mancanza di un impegno sostanziale (soprattutto da parte di Cargill e Bunge) verso la strategia della “deforestazione zero” che in Amazzonia ha consentito di ridurre dal 30 all’1% la distruzione della foresta senza incidere sulla produzione di soia e senza influire in modo sostanziale sui costi. Per un netto cambio di rotta basterebbe, sostengono le Ong, istituire una “data limite” oltre il quale non è più possibile la conversione i territori naturali per la coltivazione di soia. Una data che l’iniziativa Accountability Framework avrebbe fissato al 1° gennaio 2020, ma ancora ignorata dai produttori. A costringerli a rispettare la scadenza potrebbero essere i commercianti del legume rifiutandosi di acquistare soia coltivata su terreni convertiti dopo l’inizio del 2020.

La complicità della finanza

Ad avere ancora più potere nella protezione delle foreste sono, secondo le Ong, gli operatori finanziari. Molte banche, assicurazioni e investitori hanno assunto impegni volontari a tutela del clima e della biodiversità e, soprattutto, l’adozione della legge francese sul dovere di vigilanza delle imprese (Devoir de Vigilance) li obbliga ad adottare piani di sorveglianza e li rende legalmente responsabili delle violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, della salute e sicurezza umana e dell’ambiente derivanti dalle loro attività. Di fatto, gli attori finanziari dovrebbero imporre regole ai soggetti ai quali concedono i propri denari per non diventarne complici di eventuali violazioni. Eppure secondo Lucie Pinson, fondatrice e Ceo di Reclaim Finance, almeno 5 grandi banche francesi (e presumiamo anche degli altri paesi) hanno concesso quasi 9,5 miliardi di dollari in finanziamenti al gruppo ABCD tra il 2016 e il 2019. Più del 60% dei finanziamenti (6 miliardi) è stato erogato da BNP Paribas, mentre altri 2 miliardi arrivano dalla Société Générale, 966 milioni dalla BPCE, 472 milioni dal Crédit Agricole e 45 milioni dal Crédit Mutuel. Inoltre, gli investitori francesi detengono 317 milioni di dollari in azioni e obbligazioni del gruppo ABCD, dei quali 112 posseduti da Crédit Agricole, 76 da BPCE, 75 da BNP Paribas e 43 da AXA. Un portafoglio che, per gli estensori dello studio, spiega la mancanza di un’efficace politica di controllo degli operatori finanziari a contrastare la deforestazione nel settore della soia. Per indurli ad adottare azioni più concrete, le quattro Ong hanno chiesto a 11 attori della finanza transalpina di impegnarsi a sospendere i servizi finanziari ai commercianti di soia che entro il 1° gennaio 2021 non impongono ai produttori di inserire la “data limite” del 1° gennaio 2020 per la fine della conversione dei terreni. Tra le richieste ci sono pure l’istituzione di un sistema di tracciabilità e di uno di controllo da parte di organismi indipendenti. A fine ottobre a rispondere all’appello sono stati soltanto cinque operatori con promesse vaghe e senza nessun impegno a interrompere i servizi a commercianti e produttori che continuano le loro pratiche distruttive. “La protezione del Cerrado”, sottolineano i responsabili delle Ong, “non si farà con le parole, ma con i fatti. Questi sono ancora mancanti”.

Foreste in pericolo non solo per la soia

Ricordiamo che la soia non è l’unica responsabile delle deforestazione nel mondo. Contributi di rilievo arrivano pure dalla zootecnia, dall’industria cartacea e da quella mineraria, nonché da coltivazioni come quelle del caffè e dell’olio di palma utilizzato sopratutto come biocarburante per le auto. Una serie di attività che, secondo il WWF, avrebbero causato l’abbattimento di oltre 6.000 miliardi di alberi sui 9.000 esistenti prima della rivoluzione agricola e il disboscamento di 420 milioni di ettari negli ultimi 30 anni, più o meno la superficie dell’Unione Europea. Un numero in crescita di circa 10 milioni di ettari all’anno che colpisce in prevalenza le aree tropicali provocando enormi danni. Basti pensare che se la deforestazione fosse un paese, sarebbe il terzo più grande emettitore di gas serra al mondo, subito dopo Cina e Stati Uniti. Secondo alcune stime è responsabile tra il 12 e il 20% delle emissioni annue di gas serra nel mondo, numero che sale includendo le emissioni legate alla conversione degli ecosistemi naturali. Non a caso, per l’IPCC fermare la deforestazione è uno dei modi più efficaci per mitigare il cambiamento climatico e per limitare il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi come auspicato dall’Accordo di Parigi. Non solo. Le foreste producono oltre il 40% dell’ossigeno atmosferico del Pianeta, ospitano l’80% della biodiversità terrestre e milioni di specie animali, molte ancora sconosciute. Tra i danni generati dalla distruzione delle foreste, è bene sottolinearlo, c’è pure l’incremento delle zoonosi, ossia le patologie trasmesse dagli animali all’uomo. Covid-19 incluso.




Lasciare un commento