venerdì 26 aprile 2019 - Phastidio

La sinistra aritmetica di “lavorare meno, lavorare tutti”

Della serie “Italia, dove nuove meravigliose idee prendono forma”, a conferma che siamo l’avanguardia mondiale dell’autoinganno, oggi su Repubblica viene rilanciata una variante delle ricorrenti ideuzze della nostra sinistra col pallottoliere, lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Lo so, ne avete le tasche piene e pure io, ma qui vorrei solo richiamare la vostra attenzione su quello che accade quando l’ideologia occulta l’evidenza della realtà.

La proposta, che secondo alcuni piacerebbe ai pentastellati, stavolta proviene da un giuslavorista di sinistra radicale, Piergiovanni Alleva, già membro del Cnel ed oggi consigliere regionale dell’Emilia Romagna. Banalmente, si tratta di una divisione. In che senso? Nel senso di quanti disoccupati potrebbero essere assunti utilizzando il reddito di cittadinanza per ridurre l’orario di lavoro a parità di retribuzione.

Sono quelle idee geniali che spesso si accendono nella testolina dei nostri progressisti, per i quali lo stock di lavoro è superfisso ma con riferimento al monte ore. Siamo sempre in modalità Portobello, nel senso dell’inventore che voleva risolvere il problema della nebbia in Val Padana spianando il Turchino, in pratica.

In sintesi estrema, si tratterebbe di un’applicazione del contratto di solidarietà espansiva ma a retribuzione invariata per chi -su base volontaria- chiedesse di ridurre il proprio orario di lavoro. Ma non è meraviglioso, tutto ciò? E come? Ve lo spiega Alleva:

La via – lo anticipiamo subito – è quella di utilizzare le risorse finanziarie che sarebbero assorbite dal reddito di cittadinanza per redistribuire il lavoro “che c’è”, riducendo, senza penalizzazione economica, gli orari di lavoro, ed allo scopo forniremo esempi numerici assumendo, in via convenzionale e dimostrativa, l’importo “standard” del reddito di cittadinanza che è di € 780,00 mensili.

Ad esempio?

Ad esempio, se i lavoratori già in forza riducessero (volontariamente, beninteso) da cinque a quattro giornate la settimana lavorativa, per ogni quattro lavoratori “riducenti orario” si creerebbe, con assoluta certezza [sic], un posto di lavoro per un disoccupato. […]

Un’ardita sintesi: in pratica, sulla vecchia fallacia sinistra secondo cui lo stock di lavoro è fisso e di conseguenza se riduciamo le ore lavorate possiamo assumere altra gente, si innesta la novità di uno stipendio invariato ad orario ridotto, usando le risorse del reddito di cittadinanza. A noi italiani il moto perpetuo spiccia casa, e non da oggi.

Abbiamo un lavoratore che percepisce un netto di 1.300 euro; desidera lavorare un giorno in meno a settimana ma con uno stipendio decurtato del 20%, pari a 1.040 euro, non potrebbe farcela. E quindi? Quindi si prendono quattro di questi aspiranti part timer, si integra il loro stipendio con i 780 euro di un reddito di cittadinanza pieno, e siamo a cavallo. Dopo di che, le aziende fanno una nuova assunzione per quei quattro che si sono ridotti l’orario e, con un complesso algoritmo, ecco che la disoccupazione cala.

Ah, ci sarebbe uno sfrido di 65 euro in meno al mese, ma sono pinzellacchere, da riassorbire con qualche erogazione da “welfare aziendale”, dice l’ingegnoso Alleva.

Ma come abbiamo fatto a non pensarci prima? Questa è pura aritmetica! E infatti, eccovela, inclusa l’indicazione dei centesimi dopo la virgola, come al supermercato:

Crediamo che tutti i lavoratori pagherebbero ben volentieri € 65,00 al mese (ma probabilmente meno o nulla del tutto) per avere un giorno libero in più alla settimana, ma, ammesso che lo voglia solo la metà, si tratterebbe pur sempre di 8 milioni, su 15 totali di lavoratori a tempo indeterminato, con il consequenziale riassorbimento immediato di due milioni di disoccupati, ossia di tutta la disoccupazione giovanile ed oltre.

Beh, sì, forse molti più sarebbero d’accordo. E quindi potremmo anche causare una penuria di soggetti da assumere, in un boom senza precedenti che alla fine innescherebbe pure una pressione rialzista sui salari, tutti si solleveranno da terra tirandosi per le stringhe e vissero tutti felici e contenti.

In attesa che il corriere bussi alla porta per consegnare il Nobel, ecco qualche problemino, di quelli che tanto piacciono a noi disfattisti.

Davvero Alleva e quelli come lui credono che un’azienda si gestisca con un numero di lavoratori dilatabile a piacere, perché unica variabile pivot è il monte ore? Le tecnologie e l’organizzazione aziendale sono realmente una variabile residuale rispetto al sopracitato monte ore? Solo chi ha assai scarsa dimestichezza coi processi produttivi arriverebbe a questa conclusione.

A parte ciò, aspetta un attimo: l’azienda ha quattro part time nuovi di zecca, risparmia 780 euro. Poi però deve assumere un lavoratore ma non può pagare più di quei 780 euro, altrimenti il suo costo del lavoro, a parità di monte ore, aumenterebbe (prescindendo dalla verosimilmente inferiore produttività dei neo-assunti). Che posso fare, quindi? Chiedo allo Stato uno sgravio per ogni stipendio eccedente i 780 euro? Ma se così fosse, addio magica aritmetica “redistributiva del lavoro che c’è”. Fatto studi classici?

E che faremmo degli assunti privi di competenze, i cosiddetti unskilled?Beh, quello mica è un problema, ribatte Alleva: per loro basterebbero contratti di apprendistato, un bel piano formativo e passa la paura. In pratica, le imprese si troverebbero a vivere degli sconquassi di produttività (anche solo quella da curve di apprendimento, a livello minimale) ma che problema c’è?

E qui torna l’antico tic della nostra sinistra keynesiana della Magna Grecia: non esiste isteresi, non esiste depauperamento del capitale umano, non esistono soggetti inimpiegabili o il cui prodotto marginale sia risibile. Una visione di grande ottimismo, che se ne fotte serenamente dell’innovazione tecnologica e considera tutti più o meno fungibili. Il lavoro come commodityindifferenziata, in pratica. Chissà dove hanno succhiato questo latte, e perché. Forse è l’ipostatizzazione del concetto marxiano di esercito industriale di riserva, chi può dirlo. O forse è pura scuola neoclassica, quella della concorrenza perfetta su output e input indifferenziati. Tutti unskilled, e così sia.

Che facciamo poi per la disoccupazione delle zone in cui il lavoro proprio manca? Spostiamo centinaia di migliaia di persone da Calabria, Campania, Sicilia eccetera verso Lombardia, Veneto, Emilia Romagna? Pare che il geniale piano Alleva non abbia considerato questo dettaglio minore. Ma forse egli pensa che, riducendo l’orario di lavoro a parità di retribuzione, le regioni depresse vedrebbero un florilegio di imprenditorialità e creazione di lavoro. O no?

Da ultimo, ma non per ultimo: Alleva ed i suoi correligionari della sinistra aritmetica si sono resi conto che quello che stanno cercando di fare è ridurre il costo del lavoro? Mai provato a giocherellare con una curva di domanda ed una di offerta, nelle giornate uggiose? Ma se l’obiettivo è quello, perché non stanziare risorse per abbattere il cuneo fiscale? Chiedo per un amico extraterrestre, s’intende.

Ecco, prendete questo come un piccolo divertissement dei giorni di festa, oltre che come ennesimo marcatore della desolante condizione della nostra cosiddetta intellighenzia di sinistra, e non solo. La probabilità che qualche arruffapopolo poco avvezzo al lavoro possa mettere in canna questo ennesimo proiettile d’argento non è bassa, tuttavia. Gli italiani adorano le scorciatoie, meglio se impanate di ideologia. Alla fine, si può sempre dire che è colpa della Germania, dell’Europa e del capitalismo, che notoriamente è il loro mandante.

Voi invece, ripetete con me: la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione è conseguenza di recuperi di produttività, non la premessa. Chi pensa il contrario è il cuginetto di quelli che “basta stampare moneta, e tutto si risolve”. Gli antropologi del futuro avranno davvero molto da spiegare, analizzando l’Italia.




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