mercoledì 1 febbraio 2017 - Aldo Giannuli

La sentenza della Corte Costituzionale ed i suoi effetti

Non abbiamo, ovviamente, ancora il testo delle motivazioni della sentenza che permetterebbero una valutazione più penetrante e completa, ma già ora possiamo tentare una riflessione più a freddo degli scorsi giorni.

Scrivendo subito dopo la notizia della sentenza, e sulla base di frettolosi commenti di agenzia, sono caduto in errore: non è affatto vero che la Corte abbia bocciato i capilista bloccati ma, molto più semplicemente, ha limitato la loro libertà di optare per un collegio, in caso di candidature plurime, ed ha introdotto il sorteggio. Cose che accadono quando si è costretti a scrivere a tamburo battente. D’altro canto, avvertivo sin dal titolo che era solo un primissimo commento, necessariamente incompleto e provvisorio. Adesso veniamo al merito.

Partiamo dai due difetti di origine di questa sentenza: il non avere considerato la legge nel suo complesso e il restare in una confortevole vaghezza sul tema del principio di rappresentanza.

Mi spiego meglio: la Corte, normalmente, risponde a quesiti più o meno particolari e, pertanto, spesso non prende in considerazione le leggi nella loro interezza a meno che questo non sia nel quesito passato al vaglio della giurisdizione ordinaria. E questa volta c’erano cinque diverse ordinanze di remissione di altrettanti tribunali che puntavano l’attenzione su singoli aspetti della legge.

A proposito: il lavoro non è finito, perché ci sono altri 14 tribunali che devono decidere su altrettanti ricorsi e su punti diversi da quelli decisi, per cui è largamente probabile che almeno una parte di essi trasmetta il rispettivo ricordo alla Corte e che, dunque, debba esserci una ulteriore sentenza.

Tornando a quel che dicevamo, ne è scaturita una sentenza che opera una serie di isolati interventi tecnici, ma non tiene conto del risultato di insieme, un po’ come se una equipe di chirurghi intervenisse su singoli organi, ma trascurando i valori clinici complessivi: l’operazione è riuscita, ma l’ammalato è morto. Una legge elettorale è per sua natura una legge organica, nella quale è essenziale il combinato disposto fra le sue varie parti e va considerata anche dal punto di vista dei suoi effetti sul sistema costituzionale nel suo complesso.

Ad esempio: può benissimo darsi che tanto un premio di maggioranza quanto le soglie di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza siano costituzionalmente corrette, ma l’adozione contemporanea delle due cose può determinare un effetto cumulativo che porta il livello di disrappresentatività a livelli decisamente inaccettabili.

E qui veniamo al secondo punto di cui dicevamo: l’ambiguità della Corte sul punto della rappresentatività. Come si ricorderà, nella sentenza n 1/2014, la Corte aveva sancito l’eccesso di disrappresentatività del “Porcellum” che, non avendo una soglia minima, garantiva il 54% dei seggi alla coalizione che avesse avuto un voto in più di tutte le altre, con il risultato che la coalizione Pd –Sel, con il 29% dei voti prese il 54% dei seggi, raddoppiando la sua rappresentanza. Che un simile risultato fosse abnorme era solare, ma la Corte era rimasta sul vago sulla soglia massima di disrappresentatività ammissibile. Ora non precisa ancora quale essa debba essere, ma, implicitamente, lascia intendere che un premio del 14% (poco meno di 90 seggi) sia accettabile e boccia il ballottaggio proprio perché non fissa una soglia minima per l’accesso ad esso (ad esempio il 30%).

E così crea due problemi: in primo luogo lascia aperta la possibilità di abbassare la soglia che fa scattare il premio al primo turno, per cui la si può portare al 35% (e Casini già lo propone) o anche meno, purché non inferiore al 30%, per rispettare l’indicazione della sentenza precedente. In secondo luogo, lascia impregiudicato l’effetto cumulativo del premio più le soglie di esclusione che, peraltro possono essere anche aumentate (e al Senato sono già dell’8% per i singoli partiti e del 20% per le coalizioni). Ad esempio, con soglie di esclusione come quelle del Senato, se un partito ha il 40% e prende il premio del 54%, ed insieme ci sono otto partiti che, avendo in media il 5% dei voti restano sotto la soglia di esclusione, abbiamo che il 40% dell’elettorato non ha rappresentanza e il rimanente 60% distribuisce i seggi dandone 340 ad un partito che ha il 40% dei voti e 260 agli altri partiti che rappresentano il restante 20% dell’elettorato: vi sembra un esito decente dal punto di vista della rappresentatività?

Queste due pecche di origine producono un incomprensibile sistema elettorale che non ha riscontri nel mondo: proporzionale o maggioritario a corrente alternata, a seconda se uno dei contendenti superi o meno il 40% dei voti. Il “Proporzionario”.

Per di più con un sistema che prevede coalizioni al Senato e liste singole di partito alla Camera, per cui alcuni partiti potrebbero essere alleati al Senato e concorrenti alla Camera, alcuni con lo stesso simbolo nei due rami del Parlamento, altri con simboli diversi, con la possibilità che un partito vinca alla Camera ed i suoi avversari vincano al Senato.

La scienza giuridica e quella politologica non hanno un termine che possa definire un sistema del genere; sopperisce il linguaggio comune che suggerisce il termine “papocchio” e papocchio senza precedenti.

Vediamo gli effetti di una simile normativa alla Camera: i partiti maggiori, che possono realisticamente aspirare a raggiungere il 40%, ovviamente, punteranno a quel risultato, anche se in questa occasione non pare ce ne siano le condizioni, ma potrebbero formarsi in seguito. I partiti intermedi (stile Lega e Fi) sicuri si essere oltre la soglia, ma non in grado di competere per il premio, punteranno a presentarsi da soli o ad assorbire qualche alleato minore, cercando di erodere ai fianchi i maggiori, per evitare che uno arrivi al 40%.

Ai partiti più piccoli, con rischio di restare sotto soglia, restano due vie: o coalizzarsi fra loro per una lista comune (che potrebbe essere ripetuta al Senato) o confluire in una di quelle maggiori (ad esempio FdI nelle liste della Lega, o Pisapia in quelle del Pd) . In questo modo, avremmo tre tipi di strategia asimmetrici, destinati a condizionare le trattative post elettorali per la formazione di maggioranze, anche perché al Senato, è plausibilissimo che nessuno abbia la maggioranza dei seggi.

Quindi abbiamo tutti i difetti del maggioritario con tutti i difetti del governo di coalizione proporzionalista, senza i vantaggi di nessuno dei due. Quale sistema politico può funzionare in questo modo?

Veniamo poi ad un altro punto dolente: i capilista bloccati che restano. La sentenza 1/2014 era stata piuttosto ambigua sul tema, lamentando l’assoluta assenza di voti di preferenza, per cui consigliava, molto maldestramente, di risolvere il problema o con i collegi uninominali o con liste più piccole in cui fosse più possibile per gli elettori conoscere i singoli candidati. Anche qui, i supremi giudici hanno mostrato di non avere visione di insieme: rimpicciolire i collegi –come Renzi ha fatto- non serve affatto a garantire un migliore rapporto fra eletti ed elettori, nella presunzione che più corta è la lista e più l’elettore conosce i candidati.

D’altra parte, a che serve conoscere i candidati se poi non hai possibilità di scegliere ed alterare l’ordine di arrivo? Peraltro, nessun partito prende tutti i seggi in palio in un collegio: realisticamente, si aggiudicherà al massimo un terzo di essi, nel caso di partiti di ampie dimensioni, ed eccezionalmente qualcosa in più. Per cui sapere che all’ultimo o penultimo posto ci sia Caio piuttosto che Mevio non serve assolutamente a nulla in caso di liste bloccate. Ed ecco che una Corte poco accorta non ha notato che, con cento collegi, bloccare i capilista produce, allo stesso modo di prima, un Parlamento in grande prevalenza di nominati. Infatti, i partiti di dimensioni ridotte, che prendono solo un seggio in ciascun collegio avranno solo nominati, quelli intermedi (dal 15 al 20%) avranno in gran parte nominati e in qualche raro caso di un secondo eletto in qualche collegio (è il caso della Lega), avrà qualche eletto con le preferenze e solo nei partiti con più del 30% dei voti ci sarà una quota di circa la metà degli eletti con preferenze. Morale: il totale è di un 60-70% di nominati. Almeno, con l’Italicum, era garantita una quota di 240 (38%) di eletti con preferenze che, in questo caso raggiungeranno a stento i 200.

L’avvocatura dello Stato ha difeso la norma sui nominati sostenendo che non c’è una norma costituzionale che lo impedisca e la Corte gli è andata dietro, anche qui dimostrando di non avere applicato un’ interpretazione sistematica della Costituzione: in fondo non esiste neppure una norma che dica che il principio di rappresentanza prevalga su quello di governabilità, ma la sentenza precedente lo aveva ricavato, appunto, da una interpretazione sistematica del testo. E la norma da cui ricavare il diritto dell’elettore a scegliersi non solo il partito, ma anche il singolo eletto, a ben vedere, c’è ed è l’art. 67che sancisce che “ogni singolo membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” il che implica che il mandato elettorale non sia conferito al solo partito (nel qual caso non avrebbe senso parlare di “ogni singolo membro”) ma anche al singolo eletto, che fonda la sua indipendenza -anche dal partito di appartenenza- proprio sul mandato ricevuto personalmente.

Insomma, soppresso il doppio turno, confermato il premio di maggioranza, anche se con la soglia del 40%, confermato in gran parte il principio dei parlamentari nominati quello che viene fuori è un Porcellum un po’ rivisto.

Questa sentenza, salvo che per aver stabilito la possibilità di impugnare una legge elettorale davanti alla Corte anche prima della sua applicazione, è un passo indietro rispetto alla 1/2014. E, da un punto di vista politico è una sentenza di gusto spiccatamente renziano. Infatti, Renzi auspicava due cose: il mantenimento del premio di maggioranza e la conferma dei capilista bloccati (con cui epurerà le liste del Pd da tutti i dissidenti), vero è che è caduto il ballottaggio, ma quello non stava più bene neanche a Renzi perché, contro le previsioni quando fu fatta la legge, giocava a favore del M5s e quindi andava abrogato.

La Corte ha risparmiato al Pd l’imbarazzo di doverlo far lui. Dunque una sentenza che andasse più incontro ai desiderata del fiorentino non si poteva fare.

Un risultato decisamente deludente dopo la spallata del 4 dicembre che autorizzava ben altri risultati. Ma questo non è certo colpa del collegio degli avvocati che ha fatto miracoli, spendendosi con grande generosità. Il punto è che, dopo il 4 dicembre, complice l’arrivo del Natale, non c’è stata nessuna mobilitazione a sostegno dell’azione di incostituzionalità e questo sia perché le forze politiche del no si sono disperse su cento altre minuzie (il M5s si è concentrato nella difesa dell’indifendibile Raggi o nelle capriole strasburghesi; sinistra italiana e la sinistra Pd si sono ripiegate a guardare il proprio ombelico, quanto a Lega e Fi non è materia per loro). Ma di questo riparleremo.

Aldo Giannuli




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