mercoledì 29 maggio 2013 - UAAR - A ragion veduta

La scuola pubblica dopo Bologna

Il referendum di Bologna era già riuscito a riproporre all’attenzione di tutti il destino della scuola pubblica. L’esito del referendum, con la sorprendente (vista la disparità delle forze in campo) affermazione dei sostenitori della scuola per tutti, potrebbe riuscire ad ampliare ulteriormente l’attenzione per questo delicatissimo tema. Scriviamo “potrebbe,” e non “dovrebbe”, perché la classe dirigente sembra rivelarsi sempre più sorda ai segnali che arrivano dalla popolazione.

Il 26 maggio hanno votato per il referendum comunale, che era solamente consultivo, 85.934 bolognesi, il 28,71% degli aventi diritto. Di questi, il 59% ha votato contro i finanziamenti alle scuole materne private e il restante 41% a favore. L’opzione A sostenuta da un comitato di cittadini ha quindi vinto, nonostante lo stesso sindaco Virginio Merola sia sceso direttamente in campo per boicottare il referendum. I seggi predisposti erano pochi e dislocati male, e il referendum è stato concentrato in una giornata, con pesanti disservizi e mancanza di informazione agli elettori, che in molti casi non sapevano dove votare. Il comitato Articolo 33 ha snocciolato tutta una serie di problemi e ha anche diffidato il Comune perché di fatto si è reso difficile se non impossibile il voto a tanti cittadini.

Nonostante la vittoria dell’opzione A, molti hanno contestato la legittimità del risultato parlando di scarsa partecipazione. Se si vanno però ad analizzare i dati delle passate consultazioni referendarie comunali ci si rende conto che l’affluenza è stata in generale bassa, ancor di più in un periodo di disaffezione dalla politica come quello che stiamo vivendo. Per esempio, nel 1997 al referendum sulla privatizzazione delle farmacie comunali votarono il 37,11% degli aventi diritto, ma la consultazione si tenne per tre giorni. Alla luce anche delle recenti amministrative, che hanno visto un crollo di partecipazione, la mobilitazione di Bologna è riuscita con i suoi scarsi mezzi proprio laddove molti rodati partiti stanno fallendo per mancanza di contatto con le realtà sul territorio. A dire il vero, è stato piuttosto lo schieramento per le scuole private che non è riuscito a mettere in campo il potenziale che si aspettava, nonostante la potenza di mezzi e di canali di propaganda e informazione.

Alle comunali 2011 circa 50.000 elettori hanno votato per le liste che si sono schierate con A, quindi il consenso verso il tema si è mantenuto, nonostante la disillusione della politica. Per contro, circa 140mila cittadini si erano espressi per le liste favorevoli al B: ma quando si è trattato di andare a votare per il referendum, ne sono rimasti molti di meno. E nonostante l’appoggio di tutti i poteri forti: Chiesa, governo, imprenditori, Cisl, nonché dei media e dei giornali locali, come Il Resto del Carlino. Qui la Chiesa è stata costretta a scendere in campo, perché una delle due opzioni, la B, era espressamente per i fondi alle scuole private cattoliche. Non come il referendum nazionale sulla procreazione medicalmente assistita del 2006, dove la Chiesa ha invitato all’astensione anche perché la legge 40, pur liberticida, non soddisfa pienamente la dottrina cattolica (che è contraria alla fecondazione tout court, laddove la legge la limita fortemente).

Questo fronte così esteso, ricco e influente è riuscito a mobilitare solo un numero incredibilmente basso dei propri sostenitori, segno che non è capace di capire le istanze dei propri iscritti, militanti, associati, fedeli. Mentre un comitato nato spontaneamente dal basso è riuscito a far convergere molto più consenso di quanto non ci si sarebbe aspettati. Non è da escludere che la voglia di mobilitarsi per un numero relativamente basso di figli di ricchi che vogliono pagare rette più basse grazie ai soldi pubblici sia stata particolarmente scarsa.

Alla luce di questa affermazione alle urne, il comitato intende andare avanti e l’esperienza bolognese potrebbe attecchire anche in altre città dove è forte il dirottamento di fondi pubblici sulle scuole private, nonostante i tagli alla scuola pubblica e i tempi di magra.

Il deputato Pd e politologo Carlo Galli, che si era espresso per la B come tanti esponenti del suo partito, in una intervista su Repubblica ha bacchettato il sindaco, che “ha gestito la faccenda in modo ragionieristico”: “ha vinto la A, non c’è dubbio, sarebbe uno sbaglio nascondersi dietro la scarsa affluenza”. Il docente dell’università di Bologna ha detto che i cittadini sono “stanchi e demotivati, ma si mobilitano ancora su questi temi” di principio. Qualcuno fa notare il doppiopesismo di Merola, che parlava di “affluenza record” alle primarie del centrosinistra a Bologna nel 2011 che l’hanno eletto candidato sindaco (28mila votanti) mentre per il referendum ha minimizzato: una “minoranza” impegnata in una “battaglia ideologica” (ma erano tre volte tanti, ovvero 85mila).

Dopo il referendum la Federazione Lavoratori della Conoscenza della Cgil fa notare che l’esito del voto “è chiaro”: “Ha vinto la scuola pubblica e adesso l’amministrazione comunale deve tenerne conto aprendo una discussione pubblica”. Anche il segretario Mimmo Pantaleo ricorda che “sarebbe un errore utilizzare l’argomento della scarsa partecipazione al voto”. E si rivolge alla ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, che pure aveva chiesto a gran voce più fondi alla scuola: “Quel voto rispecchia i sentimenti delle persone che vogliono più scuola pubblica e non la privatizzazione dell’istruzione”. Occorre quindi “aprire immediatamente un tavolo di confronto sull’emergenza in cui versa la scuola dell’infanzia cogliendo il grido di aiuto che viene da tanti enti locali che non riescono più ad assicurare l’offerta pubblica comunale e chiedono di statalizzare le loro scuole”. Molte famiglie infatti, con il pesante taglio dei servizi, si vedono dare spesso il benservito proprio dalle stesse istituzioni cui si rivolgono e vengono indirizzate verso scuole private che si fanno pagare rette altissime, nonostante abbiano il diritto a una scuola pubblica.

Romano Prodi, che aveva invitato a votare B, ha riconosciuto che i risultati di Bologna “si accolgono”. Il Comune di Bologna ha fatto sapere che non abolirà la convenzione con le scuole paritarie dell’infanzia, ma il sindaco ammette che “è giusto cogliere questa domanda di attenzione verso la scuola pubblica”. Impostazione condivisa dal ministro Carrozza: è “un voto che stimola a una riflessione sul servizio pubblico, da approfondire a livello nazionale”. Sia il sindaco sia la ministra capiscono che non si può eludere la portata nazionale della questione, anche se niente cambierà nell’immediato.

Tra i critici non poteva mancare l’ex ministro e senatore Pdl Maurizio Sacconi, che ha bollato il referendum come frutto di “una minoranza ideologizzata, divisiva rispetto al senso comune” e ha invocato il quorum per rendere inefficace anche lo strumento del referendum locale. L’ex ministro dell’Istruzione e vicecapogruppo dei deputati Pdl, Maria Stella Gelmini, ha parlato addirittura di “disastro sotto tutti i punti di vista”, a causa dell’affluenza e perché si “è spaccata la sinistra”. Gelmini parla di un referendum “nato come una forzatura di una minoranza politica estremista, statalista, priva di cultura, che da sempre vede come fumo negli occhi il privato che funziona, spesso anche meglio del pubblico”. Proprio la gestione Gelmini (quella sì, disastrosa per la scuola) ha dimostrato che il settore privato della scuola prospera e si consolida a scapito del pubblico che decade proprio perché il primo viene fortemente pompato da finanziamenti statali a scapito del secondo. D’altronde, come già si sa, le scuole private (che non brillano affatto per “funzionamento”, anzi, sono valutate di qualità più scadente di quelle pubbliche) sono sempre esistite e di certo non avrebbero bisogno del sostegno pubblico, nonostante si voglia far passare il ricatto che altrimenti i bambini non potranno andare a scuola.

Per il professore Stefano Zamagni, uno dei promotori dell’opzione B al referendum e non a caso anello di congiunzione tra Pd e conferenza episcopale, “nessuno può cantare vittoria”. E parla di “massa critica” non raggiunta dai sostenitori del referendum, svilendone il risultato: “Sarà quindi politicamente irrilevante”. Nonostante il mondo della politica si renda conto proprio del contrario e il tutto sia partito da un comitato senza mezzi e senza appoggi formato da qualche decina di persone. Minimizza anche la portata del proprio schieramento che era sulla carta molto esteso — comprendeva tra i tanti i partiti maggioritari e la potente curia locale — scaricando il fallimento sul Pd. Dal canto suo il ciellino Tempi parla di “fallimento” del tentativo dei referendari di “fare di Bologna il laboratorio per mettere in crisi tutte le scuole paritarie”. Avvenire, quotidiano dei vescovi, ribatte sull’affluenza “flop” e rilancia il commento negativo dell’Agesc, che riunisce i genitori degli alunni delle scuole cattoliche e parla di “rischioso precedente per tutto il Paese”.

Se dall’analisi del voto emerge ancora una volta l’esigenza di una parte importante della società di avere istituzioni più attente alla laicità dallo Stato, dall’analisi delle reazioni della classe politica viene ancora una volta alla luce soprattutto l’esigenza di salvaguardare le larghe intese, con la Chiesa oltre che tra gli stessi partiti. Il risultato del referendum ha demolito la pretesa di un gradimento plebiscitario per il sussidiarismo selvaggio di stampo ciellino, che tanti danni ha già fatto, ma la classe dirigente non sembra eticamente attrezzata per tenerne conto. Questo crescente (e forse ormai abissale) distacco tra le opinioni dei cittadini e quelle dei politici, che non riguarda ovviamente soltanto la scuola pubblica, interpella però anche chi chiede maggior laicità. Sembra difficile trovare rappresentanze più adeguate, ma anche la strada della democrazia diretta (referendum, petizioni popolari) richiede molto lavoro e non è priva di ostacoli. Forse occorre insistere su ogni fronte: un impegno ancora maggiore, dunque. Ma i risultati cominciano a venire. E prima o poi anche i politici più zelanti dovranno cominciare a fare i conti con la realtà.




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