giovedì 17 dicembre 2020 - UAAR - A ragion veduta

La religione è in declino, per diversi buoni motivi

I non affiliati a una religione e gli atei e gli agnostici dichiarati sono in una fase di forte crescita numerica. Che è facilmente verificabile in occidente e in estremo oriente, ma comincia a essere rilevabile anche in America Latina e persino nel mondo arabo-musulmano. È un dato di fatto inconfutabile, anche se non se ne parla granché. Forse perché tanti organi d’informazione preferiscono le false rivoluzioni a quelle vere.

Non è un dato universale, perché in troppi paesi il potere fa ancora capire a tutti che è opportuno seguire la religione tradizionale, discriminando o punendo ogni dissenso. È una strategia che – non abbiamo certo problemi ad affermarlo – persegue anche la Cina “atea”. Ma rimane una differenza fondamentale: a differenza delle religioni, l’incredulità avanza anche laddove non è imposta. Talvolta avanza nonostante sia aspramente combattuta.

Persino la maggior attenzione che i mass media riservano al fenomeno religioso potrebbe rappresentare una conferma di quanto sta avvenendo: per reagire al proprio declino le comunità di fede moltiplicano gli sforzi, chiamano in soccorso le autorità politiche, si estremizzano. È questo l’unico segnale di “risveglio” osservabile, grazie all’impatto crescente dell’islam radicale e dell’evangelismo Usa. Nemmeno l’innegabile successo di papa Francesco e del Dalai Lama sembra in grado di invertire la rotta. Piacciono, ma per ragioni che poco hanno a veder con la fede: a riprova, la chiesa cattolica registra un autentico esodo di massa, e non si verificano adesioni oceaniche (e nemmeno lacustri) al buddhismo tibetano. Quanto sta accadendo sotto i nostri occhi non è la fine della fede, come ritenevano alcuni pensatori un secolo fa, ma è certamente una smentita del “ritorno del sacro”, di cui si scriveva parecchio due decenni fa.

Quali sono le cause dell’avanzata della secolarizzazione? E per quanto tempo ancora potrebbe continuare? Sono due domande a cui ha cercato di rispondere Ronald F. Inglehart nel suo nuovo libro, Religion’s Sudden Decline: What’s Causing it, and What Comes Next? Un estratto del saggio, adattato per il web, è stato pubblicato sul sito della Oxford University Press. Per chi non lo sapesse, Inglehart è un sociologo che, quasi mezzo secolo fa, aveva previsto i cambiamenti sociali, politici e religiosi che viviamo ora. Nel 1981 ha fondato il World Values Survey, una gigantesca banca dati a cui attingono studiosi da ogni paese. L’averla creata gli conferisce una rara competenza sulle direzioni che l’umanità sta prendendo.

Tra gli accademici esiste un robusto consenso nell’individuare nella modernità la causa principale della secolarizzazione: si dividono semmai su quali dei suoi aspetti considerare decisivi. Secondo Inglehart, un elemento chiave è rappresentato dal ruolo della donna, a cui le società tradizionali assegnavano un mero compito riproduttivo, scoraggiando nello stesso tempo divorzi, aborti, omosessualità, contraccezione e qualunque altra attività sessuale non finalizzata alla riproduzione. Le religioni erano ovviamente centrali in questo programma, al punto che quelle che non incentivavano la fertilità sono andate gradualmente scomparendo. L’alta fecondità aveva del resto un suo senso, in un mondo caratterizzato da una massiccia mortalità infantile e da basse aspettative di vita. Ma è un mondo che sta a sua volta scomparendo, rendendo quelle norme non più necessarie e dunque sostituibili con altre, basate sulla libertà di scelta individuale.

Stanno dando il loro contributo anche il discredito generato dagli abusi sessuali e il marcato coinvolgimento politico. Ma Inglehart aggiunge un ulteriore motivo: la smentita alla tesi che il declino della fede possa portare al collasso della coesione sociale e della moralità pubblica. «Per quanto possa sembrare sorprendente», scrive il sociologo, «i paesi che sono meno religiosi tendono a essere meno corrotti e ad avere minori omicidi di quelli religiosi». Per la precisione, «il tasso di omicidio è dieci volte maggiore nei paesi più religiosi». Ovviamente, non è la religiosità a incitare a commettere crimini, «ma sia il crimine che la religiosità tendono a essere alti nei paesi più poveri». In quelli più ricchi e laici, invece, la popolazione, crescendo in una società che garantisce elevati standard di sicurezza esistenziale, «dà sempre più la priorità all’autoespressione e alla libera scelta, con una crescente enfasi sui diritti umani, la tolleranza degli outsider, la protezione dell’ambiente, l’eguaglianza di genere, la libertà di parola». Risultato: tra il 2007 e il 2020, 43 dei 49 paesi osservati da Inglehart sono diventati meno religiosi.

Il calo è stato più forte nei paesi più ricchi (e in particolare negli Usa) ma è stato evidente anche altrove. Ed è destinato a proseguire, se sarà garantita la sicurezza esistenziale di gran parte della popolazione. Quindi, se tale tendenza continuerà, «la previsione a lungo termine è che la moralità pubblica sarà meno determinata dalle religioni tradizionali, e sempre più modellata dalla cultura della crescente accettazione delle minoranze, dell’uguaglianza di genere e dell’ambientalismo, quale è emersa negli ultimi decenni».

Quest’ultima è l’informazione più interessante contenuta nello scritto di Inglehart, ancora più importante della stessa crescita dei non credenti: esiste la concreta possibilità di realizzare un mondo migliore. Le forze della tradizione non resteranno a osservare inerti il proprio declino, ed è per questo che è quanto mai necessario impegnarsi. Ma l’impegno è senz’altro più leggero, quando il vento soffia a favore.

Raffaele Carcano

Foto di Dorothée QUENNESSON da Pixabay 




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