martedì 13 settembre 2022 - Pressenza - International Press Agency

La post-verità di Zaporizhia

La centrale nucleare di Zaporizhia è spenta.

di Giorgio Ferrari

L’ultimo reattore rimasto in funzione (a potenza ridotta) è stato necessariamente spento sabato scorso, dopo che l’ennesimo bombardamento sulla omonima centrale termoelettrica (vicina a quella nucleare, come si vede dalla foto) ne aveva messo fuori servizio la sottostazione elettrica interrompendo così l’unica linea di back up che alimentava la nucleare: in pratica l’impianto si trovava nelle medesime condizioni della centrale di Fukushima quando, ancora prima dell’arrivo dello tsunami, l’evento iniziatore dell’incidente fu proprio lo “station black-out”.

In queste condizioni è estremamente rischioso mantenere in funzione un impianto nucleare, in quanto l’energia elettrica necessaria al suo funzionamento sarebbe assicurata solo dai diesel di emergenza che, come si è visto a Fukushima, possono a loro volta andare fuori servizio.
Tutto ciò è avvenuto a pochi giorni dal termine dell’ispezione IAEA all’impianto di Zaporizhia e, cosa ancor più grave, in presenza di due resident inspectors dell’IAEA che Raphael Grossi (direttore IAEA) ha voluto lasciare sull’impianto.

Lo stesso Grossi, nel suo ultimo drammatico comunicato di venerdì 9 settembre, denuncia tutto questo lasciando intendere, ma senza affermarlo esplicitamente, che ad effettuare gli ultimi bombardamenti è stato l’esercito di Kiev, prova ne sia che, diversamente da tutti i precedenti comunicati, Grossi non cita le autorità ukraine per denunciare i bombardamenti, ma gli ispettori IAEA presenti sul sito e, per la prima volta, denuncia le condizioni drammatiche della popolazione di Enerhodar che ha una amministrazione filo-russa.

Del resto lo stesso Zelenski aveva mostrato il suo disappunto verso Grossi in due occasioni: il primo settembre sostenendo che, nonostante gli accordi con il direttore IAEA, non c’erano giornalisti ad accompagnare la missione IAEA alla centrale (cosa smentita dalla presenza di oltre 60 reporter3); la seconda quando, ad ispezione terminata, riferendosi al rapporto annunciato da Grossi ha detto: ” spero che sarà obiettivo”.

L’obiettività che il presidente ukraino si aspettava da Grossi era quella, evidentemente, di confermare la tesi che fin dall’inizio è stata costruita su Zaporizhia: dimostrare che con l’occupazione dell’impianto la Russia stava minacciando l’Occidente di una catastrofe nucleare. Questa tesi, oltre che da Zelenski, è stata fatta propria dalla gran parte dei paesi Nato e dalla stragrande maggioranza degli organi di informazione che hanno sempre accreditato le notizie di fonte ukraina che sostenevano essere i russi a bombardare la centrale.

La missione IAEA dei giorni scorsi ha posto in discussione questa tesi perché, denunciando i danni causati ad alcuni punti critici dell’impianto (edificio del combustibile fresco, edificio trattamento rifiuti radioattivi e sottostazione elettrica) senza però indicarne i responsabili, non l’ha assecondata e considerata la campagna mediatica che la sosteneva, questo equivale ad una implicita smentita.

Come ho scritto e motivato se c’è qualcuno interessato a mantenere integra ed in funzione la centrale di Zaporizhzhia, questi sono proprio i russi, cosa che dovrebbe risultare evidente dagli appelli della popolazione di Enerhodar (consegnati allo stesso Grossi durante la sua visita), ma anche dal fatto che, mentre per i russi Zaporizhia è vitale per alimentare la regione di Kershon e la Crimea, agli ukraini non servono i pochi Mw dell’unico reattore rimasto in funzione data la situazione sul campo.

La centrale di Zaporizhia infatti, solo sulla carta è la centrale più grande d’Europa che fornisce il 20 % dell’elettricità del paese: da alcuni anni la metà dei suoi reattori sono fermi per raggiunti limiti di età (tanto che Energoatom due anni fa ne aveva richiesto il prolungamento dell’esercizio) e i due rimasti in funzione all’inizio della guerra vanno a potenza ridotta.
Considerata poi la perdita di territorio ad est e a sud della centrale (la regione del Donbass e quella di Kershon) non c’è alcun interesse da parte degli ukraini ad alimentare i territori del nemico, anzi è più che legittimo che l’Ukraina cerchi di impedirlo con ogni mezzo: ma un conto è sabotare tralicci e linee elettriche, un conto è bombardare una centrale nucleare o una diga (come è successo a quella di Kakhovska, a valle di Zaporizhia) che sono impianti protetti, sia pure in modo contraddittorio, dal I° protocollo aggiuntivo della Convenzione di Ginevra.
Il fatto stesso che nessuno ne faccia menzione, l’ONU per primo che ha ignorato il rapporto dell’IAEA, lascia intendere che nel caso di Zaporizhia, come avvenne nel 2003 per le armi di distruzione di massa di Saddam, c’è una tesi precostituita che non può essere messa in discussione: la Russia fa del terrorismo nucleare, bombardando i suoi stessi tecnici e soldati e perfino la popolazione amica di Enerhodar !

L’ipocrisia delle regole e delle istituzioni internazionali

Se quella che si è affermata su Zaporizhia, contro ogni evidenza, può essere considerata una post-verità con tutto il suo carico di disorientamento per l’opinione pubblica, non meno fuorviante si presenta l’esame della situazione sul campo in relazione alle regole e al ruolo delle istituzioni internazionali.
Al netto dell’atteggiamento di facciata delle parti in causa (tutte favorevoli a proteggere l’impianto di Zaporizhia), c’è da mettere in conto che le regole che sovrintendono a queste problematiche presentano vistosi elementi di ambiguità.


I testi fondamentali a cui riferirsi sono: la convenzione di Vienna del 1949 con i suoi protocolli aggiuntivi del 1977; il TNP (Trattato di non proliferazione) del 1968 e le sue revisioni.
La prima cosa che salta agli occhi, per quanto assurdo possa sembrare, è che in questi testi non è categoricamente vietato colpire una centrale nucleare, se non ricorrono particolari circostanze di assai incerto riscontro.
Il I° protocollo aggiuntivo della convenzione di Vienna, Art. 56, primo comma, stabilisce che “ le centrali elettriche nucleari, non possono essere oggetto di attacco, anche se tali impianti sono obiettivi militari, se tale attacco può causare il rilascio di sostanze pericolose e conseguenti gravi perdite tra la popolazione civile. Parimenti, gli obiettivi militari che si trovano nelle vicinanze di tali impianti, non devono essere attaccati se ciò può causare rilascio di sostanze pericolose e conseguenti gravi perdite tra la popolazione civile.”
Ma subito dopo, secondo comma dell’Art. 56, è stabilito che tale imposizione viene meno se ” la centrale nucleare fornisce energia elettrica in modo regolare e diretto alle operazioni militari e se l’attacco alla centrale è l’unico modo per porre fine a queste operazioni.”
Come si fa a dimostrare che l’elettricità fornita da una centrale nucleare, una volta messa in rete, non vada ad alimentare “operazioni militari”? Da Zaporizka partono varie linee elettriche che alimentano sia la Crimea (dove opera l’esercito russo) sia il territorio dove opera l’esercito ukraino, quindi entrambe le parti in causa potrebbero, legittimamente, invocare il secondo comma sopra richiamato.

Resta il fatto, a carico degli ukraini, che il loro esercito, attaccando le postazioni russe poste intorno alla centrale, viola il secondo capoverso del primo comma mettendo a rischio la popolazione civile (che poi è l’accusa che i russi rivolgono all’Ukraina), per questo gli ukraini, in ciò sostenuti da una campagna mediatica senza precedenti, sostengono che sono i russi a bombardare la centrale con l’intento di provocare una catastrofe.
Vero è che al successivo comma 5 si sollecitano le parti a non collocare obiettivi militari in prossimità di una centrale nucleare (come hanno fatto russi), ma subito dopo si legittima la loro presenza se questa, non partecipando attivamente al conflitto, ha per solo scopo la difesa dell’impianto (come sostengono i russi): insomma un continuo ripetersi di “qui lo dico e qui lo nego”.

Difficile immaginare che la missione IAEA a Zaporizka potesse venire a capo di questa intricata matassa, anche perché la materia fin qui descritta è di competenza dell’ONU, non dell’IAEA la quale, una volta sul posto, si è attenuta ai suoi protocolli interni e a quelli che discendono dal TNP che, in buona sostanza, devono “limitarsi” ad accertare che i materiali nucleari, le apparecchiature e gli impianti esistenti in Ukraina operino in sicurezza e non siano utilizzati in modo tale da favorire alcuno scopo militare-nucleare.
Questa attività, in virtù degli accordi di salvaguardia che ogni stato aderente al TNP stipula con l’IAEA, non può essere svolta che con la controparte ufficialmente responsabile di tutte le attività nucleari, cioè con le istituzioni ukraine e non con i russi, come è realmente accaduto.
Fuori da questo contesto normativo, decisamente inattuale per quanto riguarda i protocolli aggiuntivi della convenzione di Vienna, esistono modus operandi diversi, riassumibili in due tipologie: il “modello” indo-pakistano e il “modello” israeliano.
Il primo consiste nell’accordo stipulato nel 1988 tra India e Pakistan, tutt’ora vigente, dove i due stati si impegnavano a non svolgere nessuna azione, diretta o indiretta, che potesse distruggere o danneggiare le rispettive installazioni nucleari.
L’altro rimanda, come primo atto, alla distruzione del reattore iraqeno di Osirak da parte dell’aviazione israeliana avvenuta il 7 giugno 1981. Il reattore di Osirak non conteneva ancora materiale fissile al pari di due reattori iraniani che l’Iraq tentò di colpire durante la guerra con l’Iran e di quello siriano di Al-Kibar, distrutto da Israele nel 2007.
Nel 1991 invece Saddam Hussein lanciò dei missili, per fortuna senza successo, contro il reattore israeliano di Dimona che era operativo, mentre nello stesso anno gli USA bombardavano il centro nucleare iraqeno di Al Tuwaitha in cui erano presenti due reattori di ricerca operativi.

E’ appena il caso di ricordare che Israele e Stati Uniti non hanno mai ratificato i protocolli aggiuntivi di cui sopra e le conseguenze non sono mancate.
Bombardando Osirak, infatti, Israele non aveva solo infranto il tabù che “vietava” di attaccare siti nucleari, ma aveva aperto la strada alla “filosofia” dell’attacco preventivo e “legittimo”, la cui massima espressione si ebbe con la guerra all’Iraq del 2003.
Nelle riunioni del Consiglio di sicurezza del giugno 1981, il rappresentante di Israele dichiarò che ”il raid contro il reattore atomico iracheno Osirak era stato un atto di autoconservazione col quale Israele aveva esercitato il suo diritto di autodifesa come inteso nel diritto internazionale e come richiamato nell’ Art. 51 della Carta dell’ONU”

Sconcerta che a distanza di 45 anni, nel mentre si annoverano ben dieci conferenze di revisione del TNP, non si sia avviata alcuna revisione dell’art. 56 del I° protocollo aggiuntivo alla convenzione di Ginevra, tanto più data l’esistenza di un accordo, quello indo-pakistano, che senza troppi giri di parole stabilisce il divieto categorico di colpire qualunque installazione nucleare di tipo civile.




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