mercoledì 13 marzo 2019 - raffaele ganzerli

La politica alimentare del governo nazista

La politica alimentare fu uno dei capisaldi ideologici del governo nazista, una lotta identitaria a cui parteciparono animatamente anche i principali esponenti della nomenclatura di partito da Hitler a Hess nonché Himmler.

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Depliant propagandistico
Invito alle madri tedesche a non bere alcool ma surrogati non alcolici

Si può tranquillamente affermare che avesse lo stesso peso della strategia di riarmo e la stessa vitale importanza del risanamento economico o della politica industriale. Il motivo si può ricondurre a due principali fattori: le radici storiche del nazismo e la prospettiva futura della costruzione di un Reich millenario: sono questi gli aspetti che analizzeremo qui.

Il partito fondato da Hitler nasce da un crogiolo di correnti di pensiero improntate ad un romanticismo antimoderno volto a contrastare la degenerazione della società industriale ed urbanizzata. L’alimentazione è la prima trincea di questa lotta dove i nemici sono identificabili in tutto ciò che danneggia e corrompe l’organismo. Occorre soffermarsi a questo punto su due aspetti: il particolare concetto di “organismo” e su quali concezioni medico scientifiche si basassero queste concezioni.

Iniziamo dal primo aspetto: nei primi del novecento le teorie razziali avevano disegnato una sorta di mappa genetica dell’umanità. Ogni etnia costituiva con i suoi caratteri identitari un corpo unico collettivo distinto dagli altri gruppi e con un preciso radicamento sul territorio. La salute dell’organismo di cui si occuperà il governo nazista non è quindi quella individuale come la intendiamo oggi nella società liberale, ma collettiva. Gli slogan più in voga dell’epoca erano improntati su messaggi del tipo “la salute non è una questione privata”.

La conseguenza è che il governo si sentiva autorizzato ad imporre una politica salutare in nome del buon funzionamento dell’organismo collettivo anche con misure restringenti sui singoli individui. Il carico di provvedimenti preso in questo senso è di una enormità senza precedenti e nemmeno oggi potremmo dire che sia mai stato eguagliato. Le istituzioni scientifiche adottarono due tipi di intervento: uno volto ad eliminare tutto ciò che in termini di singoli individui o comportamenti risultassero deleteri per la salute della razza. Parliamo quindi di sterilizzazione coatta, eutanasia, lotta al fumo ed all’alcool.

Dall’altro canto però si mise in piedi un apparato propagandistico finalizzato a promuovere un’alimentazione sana e naturale, vita all’aria aperta e attività fisica. Non si trattava solo di buoni consigli ma di pilastri su cui dovevano crescere le future generazioni inquadrate nelle strutture statali create dal partito su base ideologica.

Ed è proprio nell’ottica della costruzione di un Reich millenario che la politica alimentare si dipana su un piano non solo idealistico ma anche concretamente economica. In questo quadro venne investita di un ruolo centrale la diffusione di una cultura alimentare fondata più sugli alimenti di origine vegetale che animale. E’ noto che lo stesso Fuehrer fosse un convinto vegetariano (come altri membri della gerarchia nazista), ma questo fatto (di per sè insignificante) assume un significato se inserito nel quadro culturale dell’ epoca. Negli anni ‘20 e ‘30 la Germania passò attraverso una profonda crisi alimentare dovuta anche ad un crollo della produzione agricola interna. Si diffuse l’idea che una soluzione a questo problema potesse consistere nel ridurre la produzione di carne a vantaggio disponibilità di cereali, frutta e verdura. Non solo: molti scienziati vedevano nella carne una possibile causa della diffusione del cancro allo stomaco. La causa? Alcuni ipotizzarono che il cancro derivasse dalle muffe e dai batteri presenti nella carne, altri ritenevano che la carne non fosse un alimento naturale per la dieta dell’uomo. Queste teorie scientifiche esistevano da ben prima del nazismo e finirono col contagiare anche i responsabili dell’economia: un minor consumo interno di carne si traduceva in maggiori esportazioni di questo stesso prodotto.

Il consumo di carne negli ‘30 era notevolmente incrementato anche grazie all’industrializzazione degli allevamenti. Tutto questo assunse anche un carattere simbolico nella lotta del nazismo per un ritorno alla vita contadina, ovvero metodi di allevamento più naturali ed un morigerato consumo di carne. E questo non solo in Germania ma anche nei paesi che essa avrebbe assoggettato nella sua politica espansionistica. Il contadino tedesco era il prototipo del colono.

In sintesi il governo nazista si fece propositore di uno stile di vita sobrio, senza alcool, nè carne, nè tabacco. Quale sia stato il successo di questa campagna propagandistica nel paese dei wuerstel e della birra non è difficile intuirlo. Anche le campagne contro il tabagismo non furono un trionfo; d’altronde il rischio di perdere consensi per politiche troppo restrittive era dietro l’angolo come insegnava il fallimento del proibizionismo americano.

L’arrivo della guerra segnò di fatto la fine prematura di tutte le velleità salutiste nate sotto il segno della svastica. La tanta vituperata industria alimentare diventava, con le necessità belliche, strategica e questo mise lo stallo ad ogni tentativo di demonizzare i cibi in scatola ed i loro conservanti.

Malgrado l’infrangersi di questi ideali sui vari scogli che abbiamo visto, bisogna tuttavia ammettere che è stato uno dei più colossali sforzi mai messo insieme da una nazione moderna in materia di controllo della politica alimentare. Lo è stato in termini di coercizione, arrivata fino alle più estreme conseguenze ben descritte nei libri di eugenetica, ma lo è stato anche per il modo in cui ha permeato la vita sociale attraverso l’uso delle istituzioni sanitarie e parasanitarie.

 



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