mercoledì 2 settembre 2020 - Phastidio

La pandemia degli altri: Tory austeri o sociali?

Il Regno Unito avvia il dibattito su come riportare i conti in ordine. I Conservatori al bivio tra la tradizionale preferenza per imposte contenute e la maggior spesa pubblica necessaria per "livellare" il paese

Prosegue la miniserie (mini per ora) sulla pandemia degli altri, vista dal versante economico (qui la precedente puntata). Un mio velleitario tentativo di spingere i lettori a guardare anche oltre i patri ombelichi, per conoscere le iniziative di altri governi per uscire dalla più grave crisi sanitaria ed economica dell’ultimo secolo. Oggi torniamo ad occuparci del laboratorio britannico, dove coesistono crisi Covid e imminenza della Brexit. Ma c’è dell’altro.

In attesa della presentazione del cosiddetto budget d’autunno, a novembre, si moltiplicano le voci che vorrebbero il Tesoro, guidato dal Cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, spingere per un aumento di tassazione funzionale a ridurre l’enorme deficit causato dalla pandemia. Non è così semplice, non foss’altro perché la pandemia è tutto fuorché archiviata.

Il dibattito si è immediatamente infervorato, tra sconcerto, minacce di emigrazione delle imprese e suppliche di non soffocare la presunta ripresa. Tutto più o meno condivisibile, se non fosse che questa non è una recessione qualunque, e che lo stock di debito aggiuntivo da essa prodotto sarà una pesantissima ipoteca economica e sociale per molto tempo a venire. Non intendo stancarmi di ripetere questo punto, siete avvertiti.

Detto in altri termini, mi permetterete di sorridere leggendo ed ascoltando proposte “alternative” all’aumento di tassazione basate sulla revisione di spesa pubblica. Già compaiono suggerimenti di guardare alle due solite macro aree di spesa, anche in Regno Unito: pensioni e sanità. Sulle prime c’è forse margine di manovra, visto il loro singolare ed assai generoso meccanismo di indicizzazione, detto “triple lock“: su base annua, prevede aumenti pari al massimo tra incremento delle retribuzioni, dell’inflazione e del 2,5%.

Quanto ai risparmi sulla sanità, mi pare che il sentiment degli elettori vada esattamente in direzione opposta, e non solo a causa della pandemia: ricordate la promessa vincente dei Brexiter di spendere per il servizio sanitario nazionale i soldi destinati all’Europa?

C’è dell’altro: il manifesto elettorale conservatore parlava anche qui di triple tax lock. Vale a dire niente aumenti dell’imposta personale sui redditi, di quelle indirette (VAT) e dell’assicurazione nazionale. Vero che quella promessa era anteriore alla pandemia, ma resta una criticità in termini di credibilità.

Soprattutto pensando alle prese di posizione di Boris Johnson, che hanno consentito ai Tories di far cadere il muro laburista nelle regioni più povere e deprivate, facendo leva su promesse solenni quali la fine dell’austerità ed il “livellamento” del paese, per spingere chi è rimasto indietro.

Che fare, quindi? Rimarrebbe da innalzare l’aliquota dell’imposta sulle aziende, oggi al 19% e che Sunak pare voglia portare al 24%. Shock ed orrore tra le imprese e le associazioni di imprenditori, che minacciano di balzare su un aereo. Ma soprattutto, sconcerto tra quanti erano rimasti alle promesse di fare del Regno Unito un magnete per le imprese di tutto il pianeta, a colpi di deregulation e tassazione light.

Come conciliare la nuova vocazione “sociale” dei conservatori con l’antica ambizione, rivitalizzata dalla Brexit, di essere un modello di “stato leggero”, in ogni aspetto? Io in tutta franchezza non lo so ma temo che, di questo passo, i Tories diverranno strabici e molto nervosi.

Abbiamo detto che questa non è una recessione come le altre. Sarebbe più corretto dire che questa non è una depressione come le altre. Ad esempio, per i cambiamenti profondi e durevoli che potrebbe aver innescato nell’organizzazione del lavoro, ma non solo.

Il Regno Unito ed il suo governo pro tempore dovranno compiere delle scelte, nei prossimi mesi ed oltre. Dovranno su tutto decidere se intendono mantenere la promessa di livellare l’economia. Ed ecco la cosa: per fare questo, serve innalzare strutturalmente la spesa pubblica.

Un paese come il Regno Unito, che ha pressione fiscale e spesa pubblica relativamente basse, ha i margini per farlo. Questa non è una opinione ideologica ma una constatazione. Certo, sarebbe una mutazione genetica per i Tories, che a quel punto rischierebbero scissioni. Ma non si possono fare le nozze coi fichi secchi, quando si annunciano imprese epocali come la lotta alla povertà, assoluta e relativa. E ciò implica necessariamente un aumento della pressione fiscale, almeno nel breve-medio termine ed in attesa che la leggendaria rivoluzione tecnologica arricchisca il paese di valore aggiunto da redistribuire.

Quanto riuscirà il governo Johnson a tenere la barra dritta sulle promesse elettorali e sulla sua mutazione “sociale”, lo scopriremo. Sapendo che la Brexit sarà una vera wildcard ma che resta comunque un evento avverso, sul piano economico.

Per ora, prendiamo atto che la risposta all’esigenza di chiudere la voragine fiscale è di tipo tradizionale, basata su “spending review” più o meno immaginarie e niente tasse. E poi ci sono i cinici, che suggeriscono di non toccare le aliquote ma di abolire l’indicizzazione degli scaglioni d’imposta. In tal modo, l’inflazione farebbe il lavoro sporco, col cosiddetto “fiscal drag“. Una cosa assai nota da noi nel Belpaese, dove la politica ha sempre preferito non indicizzare gli scaglioni per intestarsi periodiche ed assai parziali “restituzioni”. I più giovani troveranno incomprensibili queste parole, visto che l’inflazione pare aver smesso di essere un problema.

Ma attenzione: l’inflazione rischia di essere la strada di elezione per ridurre il fardello reale del debito, negli anni a venire. Magari miscelata con varie forme di repressione finanziaria. A quel punto, il governo di turno dovrà capire come proteggere i più poveri, che notoriamente dall’inflazione sono devastati. Come forse avrete intuito, la vita continua ad essere fatta di trade-off.

P.S. In considerazione del fatto che la diseguaglianza ovunque è aumentata per il forte incremento dei valori azionari, forse non sarebbe eresia immaginare di riportare la tassazione dei capital gain ad aliquota marginale, cioè nell’ambito dell’imposta personale sul reddito, al netto di una quota esente che servirebbe a beneficiare i piccoli risparmiatori.

tax as percentage of gdp oecd

Photo by Number10.gov on Flicker

 




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