martedì 2 maggio 2023 - Phastidio

La “misteriosa” inflazione da profitti

È stata chiamata "greedflation", è l'inflazione da profitti comparsa di recente mentre tutti si attendevano quella da salari, e che si è già trasformata in argomento di scontro politico

Da qualche tempo, il dibattito politico sull’inflazione si è focalizzato su una sorta di spirale prezzi-profitti in luogo di quella, più tradizionale, relativa a prezzi e salari. Quando un’economia vive una fase di pressione inflazionistica elevata (cosa che non accadeva da tempo immemore, peraltro), la reazione da libro di testo è quella di ammonire sui rischi che si instauri una spirale prezzi-salari, cioè che gli agenti economici finiscano a incorporare nei loro contratti le attese per una inflazione più elevata, creando un ciclo che si autoalimenta e che richiede un intervento robusto delle banche centrali, dagli esiti fatalmente recessivi. Di solito, l’imputato principale per la spirale inflazionistica è il lavoro.

GREEDFLATION

Questa volta le cose paiono andare in modo differente. Un nuovo vocabolo è entrato in uso: greedflation, l’inflazione da avidità, causata dal fatto che le aziende in media riuscirebbero ad aumentare i prezzi più dell’aumento dai costi dei fattori produttivi, tra materiali e lavoro. Giorni addietro è stato pubblicato un post sul blog della Banca centrale europea, ad opera di tre economisti dell’istituto di Francoforte, in cui si evidenzia che

[…] gli effetti dei profitti sulle pressioni domestiche di prezzo sono stati eccezionali, in una prospettiva storica. Mentre, in media, dal 1999 al 2022 i profitti per unità di Pil hanno contribuito per circa un terzo al deflatore del Pil medesimo, nel 2022 il loro contributo è stato per circa due terzi.

Questi dati causano comprensibili polemiche politiche, e la richiesta di intervenire su quelli che diventano, per vox populi, degli extraprofitti. Definizione molto scivolosa perché non specifica la misura di profitto “normale” a partire dal quale misurare gli “extra”. Il post del blog della Bce, su dati Eurostat, tenta poi di identificare i settori dove la dinamica dei profitti eccede quella dei salari, e su quale arco temporale.

Si scopre così, utilizzando due periodi differenti, che alcune tendenze all’inflazione dei profitti sono in atto da alcuni anni, mentre altre sono decisamente più recenti. Questi sono i confronti utilizzando un periodo “pandemico”, posto tra il quarto trimestre 2019 e il primo trimestre 2022, e uno post-pandemico ma “bellico”, che esprime lo shock economico dell’invasione russa dell’Ucraina, oltre alle riaperture delle catene di fornitura globali. Il colpo d’occhio è interessante:

Come si osserva, il settore energia e utilities evidenzia un dinamica molto sostenuta dei profitti in entrambi i periodi, col costo del lavoro che insegue ma a distanza. Quello agricolo continua a beneficiare degli elevati prezzi alimentari; le costruzioni che sfruttano il forte rimbalzo post pandemico innestatosi su un livello dei tassi d’interesse all’epoca ancora basso (mentre in Italia qualche genio si è convinto fosse merito del Superbonus). Ancora, i cosiddetti servizi ad intensità di contatto (commercio, trasporti, hospitality ecc.) mostrano nel secondo periodo la molla liberata dopo la pandemia. La manifattura beneficia nel 2022 del rimbalzo post pandemico mentre i costi del lavoro per unità di prodotto restano stazionari. Verosimilmente un recupero di produttività su capacità aziendali inutilizzate.

IL CARBURANTE DEI MARGINI DI PROFITTO

La tendenza a una crescita robusta di margini e profitti è presente anche negli Stati Uniti, dove una recente nota di ricerca di Albert Edwards, global strategist di Société Générale e noto “orso” di mercato, mostra una divergenza tra l’andamento dei margini di profitto “macro”, come calcolati in contabilità nazionale, e quelli “micro”, estratti dai bilanci aziendali. I primi restano in una robusta tendenza alla crescita, i secondi paiono aver iniziato a decelerare:

BEA-Profit-Margins-04-23

SP-500-Ebit-Margin

Come che sia, il punto resta uno solo, sui due lati dell’Atlantico: perché i profitti anziché i salari appaiono la determinante prevalente delle pressioni inflazionistiche, e quando arriva questo “atterraggio”, duro o morbido che sia? E soprattutto, dove risiede il carburante con cui i consumatori alimentano questo “pricing power” delle imprese?

Si è ipotizzato che si trattasse del cuscinetto di risorse pandemiche, il cui decumulo consente alle aziende di traslare sui prezzi finali i maggiori costi dei fattori produttivi. Alla fine, altro non sarebbe che un eccesso di moneta che insegue una penuria di beni, secondo la definizione tradizionale di inflazione. Da alcune evidenze pare che questa riserva sia pressoché terminata o sia prossima all’esaurimento un po’ ovunque.

Se così fosse, il passaggio successivo dovrebbe essere la riduzione della capacità delle aziende di trasferire i maggiori costi sui prezzi. Se i margini dovessero comprimersi oltre quello che le aziende e i loro consigli di amministrazione sono disposti a tollerare (senza necessariamente diventare negativi), si innescherebbe la soppressione di posti di lavoro, che sua volta indebolirebbe la domanda dei prodotti delle imprese, con rischio di recessione.

Altre considerazioni spicciole: la greedflation può essere riconducibile al potere di mercato conseguente all’aumento di concentrazione in molti settori? Possibile, ma non scordiamo che per lunghi anni abbiamo avuto inflazione inesistente, e non appare verosimile che la concentrazione sia esplosa nell’ultimo anno o due.

Restano domande e polemiche politiche. Ad esempio sul grado di potere di mercato raggiunto delle aziende, e su come trattarlo. Serviranno ovviamente analisi approfondite e settoriali, specifiche ai singoli paesi. Sappiamo già invece come andrà a finire in Italia, anzi come sta già finendo: a strepiti di “tassate gli extraprofitti!”, e vissero tutti infelici e contenti. Da “conoscere per deliberare” a “ignorare per sloganeggiare”, al solito.

 




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