La metamorfosi del politico: dall’opposizione al governo, dal prima al dopo elezioni

In politica, esiste una legge non scritta ma universale: la trasformazione – o meglio, la metamorfosi – che colpisce ogni leader nel passaggio dall’opposizione al governo.
È una mutazione profonda, spesso irreversibile, che trasforma il paladino del popolo in stratega del potere, l’indignato riformatore in amministratore di equilibri. Le promesse sventolate in campagna elettorale si dissolvono nella nebbia degli interessi di parte, delle grandi lobby e dell’economia reale e dei bilanci.
Quando si trovano all’opposizione, i politici sembrano avere tutte le soluzioni in tasca. Parlano la lingua della gente, parlano alla pancia degli elettori, invocano giustizia, trasparenza, pace e benessere per tutti, soprattutto per i più svantaggiati, ma solo perchè rappresentano la parte più consistente del corpo elettorale.
Ma, poi, una volta conquistato il potere, quella stessa lingua si riempie di compromessi, silenzi calcolati e ambiguità. Le priorità cambiano: da “fare il bene del Paese” a “gestire il consenso”, da “ascoltare il popolo” a “negoziare con i poteri forti”. Il potere, si sa, logora chi non ce l’ha, ma prima o poi logora chi ci arriva illudendo e illudendosi d prendere in giro gli elettori.
Un esempio su tutti.
Prendiamo Giorgia Meloni e Matteo Salvini che sono andati al governo del paese sventolando la bandiera “prima gli italiani”.
Tra tra le tante cose, avevano promesso di abolire la legge Fornero, invece, una volta al governo, stanno alzando l’asticella dell’età pensionabile oltre i 67 anni.
Forse pensano che quei milioni di elettori che li hanno votati per questa loro promessa, ad oggi ancora non mantenuta, li voteranno di nuovo?
Prendiamo il caso di Donald Trump nei suoi 100 giorni alla Casa Bianca.
Il tycoon diventato presidente non ha solo scosso l’establishment: lo ha liquefatto, come scrive Mark Leonard dell’ECFR. Ha messo in crisi alleanze storiche, sfidato la diplomazia multilaterale, minacciato di annettere territori e rovesciato le basi del libero scambio. Tutto nel nome di un’idea brutale e senza fronzoli: America First. Ma questa bandiera, che in campagna elettorale sembrava significare “prima gli americani”, si è rivelata essere “prima Trump, poi il resto”.
Nonostante l’immagine da pacificatore e la candidatura al Nobel per la pace, Trump ha infiammato i teatri geopolitici più sensibili: la Striscia di Gaza, l’Ucraina, l’Iran. Da un lato ha riallacciato rapporti con nemici storici come Putin e Teheran, dall’altro ha messo con le spalle al muro alleati tradizionali come l’Europa e il presidente ucraino Zelensky. Tutto in nome di un pragmatismo esasperato, che traduce la politica estera in una lista di scambi: “ti do questo se tu mi dai quello”.
Dietro le grandi dichiarazioni si celano però interessi ben meno nobili. I negoziati con la Russia, ad esempio, sembrano più il frutto di un’affinità personale con Putin che di una strategia coerente. Il taglio degli aiuti esteri, venduto come lotta agli sprechi, ha colpito programmi per l’inclusione e la cooperazione internazionale. Le misure contro l’immigrazione e i cartelli messicani, invece, sono diventate il simbolo di una politica muscolare, più utile a mantenere il consenso interno che a risolvere le crisi.
In questo contesto, le promesse elettorali diventano moneta di scambio. Appena terminato il loro scopo – prendere voti – vengono archiviate in un cassetto. Gli ideali si trasformano in slogan, i piani in strumenti tattici, i “mai più” in “vedremo”. Il vero obiettivo diventa consolidare il potere, coltivare le alleanze che contano – spesso quelle economiche – e alimentare una narrazione che serve più a giustificare che a realizzare.
La politica di Trump, come quella di molti leader populisti contemporanei, ha avuto il merito (o il demerito) di rendere visibile questa trasformazione. Ha mostrato quanto possa essere sottile la linea tra promessa e propaganda, tra progetto e pretesto. E soprattutto ha ricordato al mondo una lezione antica: il potere non cambia più di tanto la realtà delle cose per la gente onesta e per bene, ma cambia chi lo esercita.
La vera sfida, allora, non è eleggere il politico che promette di più, ma quello disposto a mantenere anche solo una parte di ciò che dice. Perché se è vero che ogni governo è figlio della realtà, è anche vero che ogni trasformazione è una scelta. E ogni promessa dimenticata, una piccola sconfitta della democrazia.
Ecco perchè in Italia oltre il 50 per cento degli aventi diritto non va più a votare, e l’astensionismo è diventato il partito di maggioranza assoluta.
Ma loro se ne fregano e vanno ugualmente avanti per la loro strada, anche se alla fine a votarli saranno solo quattro gatti!