domenica 14 dicembre 2008 - chenying

La locomotiva cinese arranca

Per la prima volta dal 2001 le esportazioni cinesi calano, mentre le importazioni addirittura crollano. Chi sperava che il Dragone salvasse l’economia mondiale è particolarmente allarmato, ma il punto è che un’economia ancora export-oriented come quella cinese non può prescindere dai consumi occidentali

Se il mondo non compra, la fabbrica del mondo finisce nei guai. E in un circolo vizioso, chi la rifornisce ha a sua volta poco da stare allegro.
In soldoni suonano così i dati diffusi dall’ufficio delle dogane cinese, che rivelano un calo delle esportazioni a novembre: -2,2% rispetto all’anno precedente. E’ il primo segno negativo dal giugno 2001.
Al contempo, si è verificato un vero e proprio crollo delle importazioni: -17.9%.

Questa contrazione parallela e repentina - fino a ottobre l’export continuava a crescere in linea con gli anni precedenti ben oltre il 19% - ha particolarmente spaventato gli analisti: perché?

Negli anni Novanta le esportazioni cinesi aumentavano in media del 12,9% ogni anno, tra il 2000 e il 2006 sono raddoppiate fino a un tasso di incremento del 21.1% annuo.
Contribuiscono al 40% del Pil domestico a fronte del 27% della media mondiale.

Anche la domanda interna è sempre stata trainata dall’export, soprattutto in termini di “processing trade” - “traffico di perfezionamento” - quella pratica cioè per cui la Cina importa materie prime e semilavorati, poi riesporta i prodotti finiti o li commercializza sul nascente mercato di casa.

Oggi la Cina importa anche beni di consumo per il nuovo ceto medio e le voci del “processing trade”, pur importantissime, non sono più le uniche ad alimentare l’import-export: nei primi 3 quadrimestri del 2008 rappresentavano il 40,8% del valore complessivo del commercio contro il 45,4% del 2007. Un dato del tutto in linea con le nuove politiche governative che scoraggiano la manifattura-esportazione di prodotti a basso valore aggiunto, la cui lavorazione richiede alti consumi energetici e grande intensità di lavoro, producendo inquinamento.

Tra importazioni per le manifattura e nuovi consumi, erano in molti a sperare che l’enorme potenziale del mercato cinese fosse la via d’uscita alla crisi. Poco tempo fa Merrill Lynch calcolava che la Cina potesse contribuire al 60% della crescita globale nel corso del 2009.
Ma il tonfo delle importazioni suggerisce che i consumatori del Dragone - più propensi al risparmio che all’indebitamento - non vadano scambiati per i salvatori del pianeta.

A questo punto, i Paesi occidentali vorrebbero che la Cina rilanciasse la propria economia con forti stimoli fiscali per sostenere la domanda interna, facendo felici un po’ tutti e soprattutto loro.
C’è però la possibilità che le autorità di Pechino - che hanno già gettato sul piatto 586 miliardi di dollari per rilanciare consumi e investimenti - procedano a una svalutazione dello yuan, che renderebbe più competitive le proprie esportazioni senza aumentare il potere d’acquisto dei cinesi e, di conseguenza, ampliare la domanda interna.




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