martedì 21 maggio 2013 - UAAR - A ragion veduta

La libertà di espressione ai tempi di internet

Il tema è sempre più discusso. La libertà di espressione è un principio affermato da quasi tutte le costituzioni e, anzi, si può forse dire che una costituzione che non affermi tale principio non può essere definita democratica. Resta però il problema dei limiti della libertà di espressione. Soprattutto ai tempi di internet. In questa occasione non vogliamo scrivere, come abbiamo dovuto fare spesso negli ultimi mesi, dei limiti che le autorità religiose vogliono porre alla critica nei loro confronti, e della velocità che troppe istituzioni e legislazioni mostrano nell’adeguarvisi. Ma del dibattito in corso in Italia sulla rete, sul modo di utilizzarla da parte dei navigatori e sul modo di considerarla da parte dei magistrati.

Punto dolente, i commenti degli utenti. Per molto tempo si è pensato fosse l’anonimato a incentivare flame, insulti o azioni di trolling. Ma se di dà un’occhiata alla piega che certe discussioni prendono su Facebook, dove la maggior parte degli utenti è perfettamente riconoscibile con tanto di nome e cognome, si è portati a pensare che la tendenza a postare commenti negativi rientri nelle dinamiche (a)sociali on line. D’altronde l’anonimato sul web è relativo, visto che ci si firma con un nick e si è rintracciabili tramite indirizzo IP o email. Senza contare che i troll sono sempre solerti e si attivano per il gusto di farlo, per questioni ideali e in rari casi persino per professione. È ormai noto come i commenti negativi possano fare da influencer, dirottando la discussione e condizionando l’opinione dei lettori sulle questioni trattate e su chi ne scrive.

A dare per primo visibilità alla frustrazione di tanti giornalisti e redattori di siti e giornali, lo sfogo di Marco Travaglio sul suo blog de Il Fatto Quotidiano. Travaglio se l’è presa con coloro che commentano solo per insultare, che non leggono ciò che viene scritto o criticano per partito preso. E con quelli che pretendono gli si dia sempre ragione perché altrimenti — nella logica dicotomica del noi/loro — si è schierati d’ufficio dall’altra parte; con chi pretende di dettare la linea a giornali o siti, perché altrimenti sono “venduti”, o scambia il parlare di una cosa con il sostenerla attivamente.

Anche le istituzioni stanno prendendo consapevolezza del fenomeno, ora che il web è diventato una piazza virtuale dove si discute — a volte in maniera accanita — su questioni politiche. Il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha denunciato le “campagne di odio” su internet e ha rivelato di essere oggetto di minacce frequenti, anche di morte. Ha quindi invocato la necessità di fare una legge che limiti certi eccessi sul web, scatenando un’ondata di commenti e reazioni, positive e negative. Di recente il direttore del telegiornale di La7, Enrico Mentana, ha annunciato di abbandonare Twitter, motivando la decisione con la difficoltà nel gestire il proprio account a causa dei numerosi insulti.

Nel dibattito sull’addio di Mentana è intervenuto anche Roberto Saviano contro il “bullismo” su internet. Di certo, scrive, è un diritto avere una propria vita sul web, che è oggetto di forti censure e limitazioni nei regimi non democratici. Ma questo diritto non può comportare il via libera all’insulto e alla diffamazione. Saviano fa notare che specie sui social network scatta “l’effetto Gialappa’s Band”: “Molti commenti intendono portare all’attenzione dei propri follower ciò che si ritene stupido più che interessante, e lo fa con parole cariche di sarcasmo”. Anche per esigenze di sintesi, si punta alla “battuta brillante, spesso feroce”, o si indulge sul cinismo o sulla provocazione. A volte sul web si scatena una spirale di insulti. Secondo Saviano, “la necessità di regole non può passare per censura”, perché se va garantita la libertà di espressione va anche tutelato il diritto di non essere diffamati o perseguitati sui propri spazi. Quindi anche “bannare è decidere di dare un’impronta al proprio spazio: è esercitare un proprio diritto”. È necessario che oltre alle regole, si costruisca una “educazione nel web”, visto che le forme di linguaggio e i toni che usiamo costruiscono il mondo che si ha intorno. “Il turpiloquio, l’insulto o l’aggressività costruiscono non una società più sincera ma una società peggiore“, sostiene Saviano, “sicuramente una società più violenta”. Questo è un monito che deve valere per tutti (anche per chi scrive), affinché si rifletta sul peso che possono avere certe espressioni o semplici commenti che giudichiamo estemporanei. Ma regole di buonsenso interne già esistono: si chiama netiquette.

Un gruppo Facebook

Oltre al dibattito fra giornalisti e intellettuali, altri fatti recenti rimettono al centro la questione dal punto di vista legale. Il gestore della pagina Facebook del blog Cartellopoli, che critica la diffusione di cartelli pubblicitari a Roma, è stato condannato a nove mesi di carcere per istigazione a delinquere e apologia di reato. Non aveva infatti rimosso dei commenti in cui si invitavano a compiere azioni di protesta che si configuravano come reato (nella fattispecie, vandalizzare cartelloni). Dopo la denuncia di una società di affissioni, ad andarci di mezzo è stato proprio l’amministratore della pagina. Sul blog di Beppe Grillo è comparso un post in cui si chiede l’abolizione del reato di vilipendio verso il presidente della Repubblica, non a caso senza possibilità di commentare. Pezzo che prende spunto dall’inchiesta della procura di Nocera Inferiore contro una ventina di persone accusate di commenti offensivi nei confronti del presidente, pubblicati come commenti sul blog di Grillo. Il blogger e leader del Movimento 5 Stelle lamenta l’attacco alla libertà di espressione da parte della politica e perquisizioni.

L’ultimo caso ha dell’incredibile e viene rilanciato da Guido Scorza sul suo blog de L’Espresso. Il tribunale di Firenze ha condannato l’Aduc per non aver chiuso un thread sul proprio forum in cui gli utenti si scambiavano esperienze e commenti su un mago, tal Omen di Bahia. Il suddetto, “cartomante demonologo esorcista e sensitivo”, come riportato dall’Aduc è stato condannato dall’Antitrust per pubblicità ingannevole: aveva organizzato corsi a pagamento in cui sosteneva di insegnare una “legge della vibrazione” tale da prevedere l’andamento dei mercati finanziari e quindi permettere cospicui guadagni. Si capisce che far chiudere a chiunque un sito o parte di esso, pretendendo alti risarcimenti, diventi un mezzo indiretto per limitare fortemente la libertà di espressione se impiegato in maniera massiccia. A prescindere dal fatto se ciò che viene denunciato sia vero o falso, il sito — e ancor di più il blog di un singolo internauta che manca di risorse — preso di mira da una richiesta di risarcimento preferirà oscurare certi contenuti piuttosto che imbarcarsi in una battaglia legale lunga e costosa, alla luce di sentenze come quella di Firenze.

La questione, a nostro avviso, è relativamente semplice: non si possono commettere online reati che non si possono commettere nella vita reale. La diffamazione, per esempio: quella vera, non la critica legittima a fenomeni più che discutibili. Anche per il resto vale però quanto previsto nella vita reale: la libertà di espressione è un principio costituzionale fondamentale e deve essere difeso. Ovviamente, ognuno deve essere libero di decidere le regole di gestione dei propri spazi, ammesso e non concesso che voglia avere spazi online. Ecco, forse ciò che non è per nulla facile è proprio la gestione di spazi online: il tempo da dedicare alla verifica dei commenti aumenta di giorno in giorno. Sembra proprio che il positivo fenomeno di voler dire la propria si debba per forza accompagnare al fenomeno negativo di condirlo spesso con insulti e falsità (e quasi sempre in casa d’altri). Il compito è sempre più impegnativo e porterà, se non cambieranno gli atteggiamenti, alla chiusura di sempre maggiori spazi divenuti ormai ingestibili. Per la libertà di espressione non sarà un giorno glorioso.




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