venerdì 17 maggio 2013 - UAAR - A ragion veduta

La giustizia europea e il suicidio assistito

Torniamo ancora una volta a scrivere di eutanasia: anzi, per essere più precisi, di suicidio assistito. E torniamo a farlo sulla scia di una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che si è espressa proprio su questo tema. Sollevando interrogativi non banali che interpellano tutti, credenti e non credenti. 

 

La Cedu ha stabilito l'altro ieri che la Svizzera deve chiarire a chi e su quali criteri è garantito per legge l’accesso al suicidio assistito, visto anche il fenomeno dei viaggi dall’estero - e dall’Italia - verso le cliniche dove si pratica.

La sentenza arriva dopo il ricorso di Anna Gross, una ottantenne che vive a Greifensee in Svizzera. La donna non ha patologie gravi, ma intende ricorrere al suicidio medico perché non vuole assistere al declino delle sue condizioni fisiche e delle sue facoltà mentali. Nel 2005 tenta il suicidio e finisce in un ospedale psichiatrico per sei mesi. Nel 2008 i medici riconoscono che ha capacità di intendere e volere e che la sua decisione è ponderata, anzi si è rafforzata nel tempo col declino delle facoltà fisiche e mentali. Ma si rifiutano di prescrivere alla donna i barbiturici, sulla base di limitazioni del codice professionale e temendo di essere ritenuti colpevoli di reato.

La donna si rivolge quindi alla commissione medica del cantone di Zurigo, che nega però la prescrizione sulla base della normativa. La legge svizzera non precisa bene i casi in cui ammette il suicidio assistito. A quel punto la questione finisce in tribunale: la corte amministrativa del cantone rigetta l’istanza perché dare supporto a chi vuole suicidarsi senza che questi abbia patologie terminali o gravi riscontrate a livello medico può essere una forma di agevolazione punibile a livello penale. Anche il successivo ricorso viene rigettato dalla corte suprema federale nel 2010, in quanto non c’è un obbligo da parte dello Stato di garantire l’accesso a sostanze pericolose e per tutelare la salute pubblica impedendo abusi.

Il caso è arrivato quindi alla Cedu, che con la recente decisione di quattro giudici contro tre ha riscontrato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, riguardante il diritto alla vita privata. La Corte fa notare che la legge svizzera non precisa bene i casi in cui ammette il suicidio assistito e che i criteri dovrebbero essere definiti dallo Stato. Ora la Svizzera ha tre mesi per presentare eventuale ricorso alla Grande Chambre. Se ne deduce, a caldo, che la Cedu ritiene meritevole di protezione l’uguaglianza dei diritti, e che quindi almeno astrattamente anche l’accesso al suicidio assistito debba essere basato su questo principio fondamentale. Ciò fa intuire che l’argomento non sia affatto tabù per i giudici di Strasburgo.

In Italia si distinguono i commenti di Avvenire, che ricostruisce la vicenda e contesta la decisione ritenendola “surreale”. Ancor più netto sul quotidiano dei vescovi Francesco D’Agostino, presidente dei giuristi cattolici e membro della Pontificia Accademia per la Vita. Secondo lui, si è passati dagli omicidi “pietosi” a un impiego massiccio della medicina palliativa che “riesce a rendere accettabile la vita dei malati terminali”, tanto che “nessun medico è ormai più destinatario di richieste di morte da parte i pazienti giunti alla fine della loro vita”. Ora però il posto di questo “omicidio pietoso” sarebbe stato occupato “da un’altra e ben più subdola forma di eutanasia, cioè dal suicidio assistito”. E alla pietà si sarebbe sostituito “un motivatore che non ha nulla di compassionevole e di emotivo, ma che è freddamente razionale: il rispetto, al limite dell’ossequio, nei confronti della volontà suicidaria del paziente”.

L’idea di tanti è che certe cose è meglio non dirle e non affrontarle, perché tanto basta aumentare le dosi di palliativi per affrettare la morte dei pazienti: per “pietà” e con “emozione”. Se invece viene rivendicato il diritto all’autodeterminazione, si affronta direttamente un tabù e si chiedono procedure chiare, allora il tutto diventerebbe “freddo” e “razionale” e sottoposto al dominio dello Stato. Questa dicotomia artificiosa ad un occhio più attento lascia il tempo che trova. Su quali basi si può pontificare che non esista un coinvolgimento emotivo da parte degli operatori o di chi è intorno a una persona nei casi di eutanasia?

Questa tendenza manichea, tipica degli integralisti religiosi, che punta a disumanizzare chi non è d’accordo viene smentita dal calore e dal coinvolgimento di tanti proprio su casi come quello di Piergiorgio Welby o Eluana Englaro. Chiedere regole chiare e il coraggio alle istituzioni di affrontare certi temi nel rispetto delle libertà e senza moralismi o diktat vaticani è preferibile, a nostro avviso, rispetto alla situazione attuale, che viene dipinta come idilliaca ma non lo è affatto. Sulla terapia del dolore sarebbe auspicabile fare molto di più e scontiamo ancora il “dolorismo” che deriva da una concezione cristiana della sofferenza. E che blocca anche qualsiasi riforma tesa a fornire criteri più precisi sul fine-vita, tali da garantire l’autonomia degli individui.

Sebbene in Italia molti preferiscano continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto, di questi temi si parla ovunque. In Francia i deputati ecologisti hanno lanciato un appello per lo “stop all’ipocrisia” e per avere una legge anche nel loro paese. In Gran Bretagna continua il processo sul caso di Tony Nicklinson, uomo paralizzato con sindrome locked-in che si è lasciato morire dopo che la corte gli aveva negato l’eutanasia. Intanto nello stato americano del Vermont la Camera ha approvato una legge sul fine-vita, che sta per essere ratificata del governatore.

Presentare in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare da noi invece è ancora tabù, come i vescovi chiedono e sostanzialmente ottengono. La campagna Eutanasia Legale, di cui l’Uaar è promotrice insieme all’associazione Luca Coscioni, Exit e altre realtà, è un primo passo, importantissimo. E sta già raccogliendo moltissime firme, per presentare in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare. Ma ne sono necessari molti altri, per recuperare lo spread di laicità che su questo tema (e non solo) ci distanzia dagli altri paesi occidentali. Nel frattempo continuano i viaggi della speranza di ottenere una morte dignitosa: sono almeno una trentina gli italiani che, come Piera Franchini, ogni anno devono recarsi in Svizzera per ricorrere al suicidio assistito. Il problema c’è e va affrontato. A Strasburgo e a Berna lo si fa, a Roma - su entrambe le sponde del Tevere - no.




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