martedì 26 novembre 2013 - angelo umana

La gabbia dorata, viaggi della speranza disperati

 

 

Si fa presto a dire “immigrato”. Vediamo l’immigrato quando è nel nostro territorio e cerchiamo di non incrociare gli occhi con lui, più confortevole è stare con e nelle nostre “gabbie”. Lo vediamo in qualche modo già inserito nella nostra società, ad esempio come ce lo ha mostrato Andrea Segre nei suoi “Io sono Li” e “La prima neve”.

Del suo viaggio da emigrante e delle peripezie per arrivare alle nostre gabbie dorate possiamo solo immaginare: un po’ di viaggio – e che viaggio - lo vedemmo con il ragazzo afgano Bilhal di “Welcome”, che cercò di raggiungere l’Inghilterra da Calais a nuoto, oppure dal barcone del film “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, ma lì eravamo più presi dalla sorte del ragazzo italiano che sarebbe annegato se gli stranieri del barcone non l’avessero soccorso.
 
Ne “La gabbia dorata” invece accompagnamo quattro ragazzi adolescenti, tre guatemaltechi e l’indio Chauk che si accoda ma non parla la loro lingua, però ha esperienza e dorme sugli alberi. Per comunicare, del resto, la lingua non è sempre strettamente necessaria tra ragazzi, sanno amarsi o litigare comunque: l'unica donna, Sara, che parrebbe dover guidare il gruppo, verrà rapita. Vediamo quasi “dal vivo” le disavventure, i soprusi, le umiliazioni, le rapine e le violenze che subiscono, da parte di bande criminali o di criminali con la divisa da poliziotto. Dal Guatemala vogliono arrivare a Los Angeles: solo Juan e Chauk arrivano negli Stati Uniti, hanno lo sguardo fisso e determinato sulla meta. Juan è conquistato dal tragitto, dice al compagno di sentire “uno zoo nel suo stomaco” (che va su e giù per l’emozione o per la fame) e immagina “meraviglioso tutto ciò che è di là”.

E’ anche preparato al peggio, ma la casetta di lamiera da cui è partito, quell’agglomerato di uomini e cani, e bambini piangenti, devono sembrargli il peggio, la disperazione o il sogno di un altro futuro lo hanno fatto partire anche a costo della vita.
 
Il loro è un viaggio da poveri che attraversa mille povertà, l’itinerario ne mostra sempre una nuova. Come a significare la gioia di vivere di queste popolazioni si vedono dei graffiti su pareti di case malconce: in uno di essi, bellissimo, è raffigurato un corpo femminile nudo che cavalca un animale mostruoso dalla scorza di spine. Nei titoli di coda il nome del regista stesso, Diego-Quemada Diez, è riportato nel ruolo di seconda “càmara”, insomma anche lui ha provveduto alle riprese: forse ciò rende ancora più realistico il viaggio dei migranti, che diverranno clandestini nella gabbia dorata. Reti e grate sono numerose, come a ricordare quelle entro cui vive il mondo “sviluppato” o progredito (poco progredito, per tanti versi) e attraverso le quali i poveri ci guardano. Ma protagonisti importanti sono i treni-merce con grappoli di uomini che affollano il tetto dell’ultimo vagone. Una storia di solidarietà data, tra i profughi stessi, e anche negata, dai controllori o predoni su quei tragitti.
 
Il primo segno di ricchezza ma, ancor più, di potere e di forza che Juan e Chauk vedranno, sono gli elicotteri della guardia di frontiera statunitense. Le barriere del confine col Messico sono ben fortificate e controllate, le supereranno attraverso dei cunicoli con l’aiuto interessato di trafficanti di droga. Non basterà a Chauk essere arrivato, i cecchini statunitensi non perdonano, nemmeno entro il loro territorio.

Juan troverà lavoro in una macelleria industriale, raccoglie gli scarti delle migliaia di carcasse che vi vengono lavorate: si trova del resto in una delle “gabbie dorate” dove gli indigeni mangiano tre-quattro o più volte al giorno, l’opulenza dopo tutta la povertà descritta. Vedrà finalmente la neve vera, dopo che il regista l’ha mostrata in varie pause su uno sfondo di cielo notturno, forse era un sogno da fuggitivi. Già, ma “quante strade deve percorrere un uomo prima che si possa chiamare uomo?” (frase di Bob Dylan sulle locandine italiane del film).

 

 

 




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