lunedì 10 aprile 2017 - Aldo Giannuli

La fine del lavoro e altre leggende…

Con questo articolo intendo iniziare una rassegna sulle bufale che circolano a proposito del lavoro, e che sono alla base di quella pezzenteria che è la richiesta del reddito di cittadinanza.

La bufala più clamorosa è che il lavoro umano ormai serve sempre meno ed è destinato ad estinguersi per effetto della tecnologia: i robot in breve faranno tutto o quasi tutto, dall’assistenza ad anziani ed ammalati, alla produzione di auto e di giocattoli, dalla costruzione di palazzi all’agricoltura, dal pelar patate a fare da baby sitter. Ed all’uomo non resta che vedere i robot al lavoro seduto in panchina. Ed, ormai, il futuro è già qui, nel giro di men che non si dica, in pochi anni se non mesi, come dimostra infatti la crescente disoccupazione non solo in Italia, ma in tutta Europa. Sicuro?

Intanto una riflessione: ma se il lavoro si sta estinguendo così velocemente per l’avanzata della robotica, mi spiegate come mai nel mondo ci sono 2.800.000.000 lavoratori salariati, pari al 42% della popolazione mondiale?

Faccio presente che nel 1980 i salariati erano 1.700.000.000, cioè quasi la metà, mentre la popolazione mondiale era di circa 4.miliardi e mezzo, pertanto, la percentuale dei salariati sul totale della popolazione era del 37% circa, dunque è attualmente salita.

Ma, mi direte, effetto della globalizzazione che ha salariato anche lavoratori che prima erano schiavi o quasi. Dunque un effetto passeggero. Bene: si prevede che nel 2030 i salariati saranno 3.500.000.000, cioè il 43%, cioè la percentuale salirà ancora. E forse è il caso di notare che attualmente i bambini costretti a lavorare in condizioni di sfruttamento bestiale sono 168 milioni.

Dunque, non pare che la tendenza sia alla riduzione della domanda di forza lavoro, anzi, al contrario è all’aumento per la produzione sempre più massiccia di merci e, semmai, il problema sono i limiti ambientali.

Ma, si obietterà, questo riguarda paesi arretrati e non il mondo avanzato di Europa, Usa e Giappone dove, invece, i posti di lavoro diminuiscono. Giusto, ma la diminuzione non è effetto delle innovazioni tecnologiche, se non in misura limitata, quanto piuttosto delle delocalizzazioni, per cui interi comparti produttivi si sono spostati in Cina, Vietnam, India, Filippine, Corea del Sud, Brasile, Argentina, Messico, Turchia, Indonesia, Etiopia eccetera.

Contro prova: quello che conta per misurare la domanda di forza lavoro non è il numero di lavoratori impiegati, ma il monte ore complessivo di ore lavorate, per cui scopriamo che è vero che il numero degli occupati (o sottoccupati) cala, ma il numero di ore lavorate aumenta. Avete mai fatto caso al fatto che ormai gli orari sindacali sono un ricordo del passato? Avete notato che i giovani nei supermercati, nei centri di assistenza, e persino in quella cosa inutile che sono i call center lavorano anche nella domenica e con orari nettamente superiori alle 40 ore settimanali? E senza calcolare l’erogazione di lavoro gratuita, travestita da metà tempo scuola-lavoro, volontariato, stage, apprendistati vari e via truffando. Anzi abbiamo anche il caso dei ragazzi che pagano profumatamente per dei master che poi approdano a periodi di “formazione” nei quali sono addetti a fare montagne di fotocopie. E mi parlate di fine del lavoro?

Dunque, mi pare che nel complesso la domanda di forza lavoro non sia affatto in calo.

Peraltro, la disoccupazione tecnologica non è una novità storica: dalla scoperta dei mulini ad acqua (XIII secolo circa), primo utilizzo di energia inanimata, questo ha sostituito forza lavoro umana che passava ad altre attività. Di solito c’erano fasi di assestamento per cui la creazione di nuove forme di lavoro non rimpiazzava automaticamente i posti di lavoro persi e per qualche tempo si produceva disoccupazione. Ma oltre che la creazione di altre forme di lavoro, il rimedio principale era la riduzione delle ore di lavoro, sia come limite quotidiano o settimanale, sia sotto forma di ferie o altre pause infrasettimanali o periodo di pensione. Se adesso questo risulta difficile è sempre per il problema delle delocalizzazioni e della libera circolazione delle merci, per cui ovviamente il prodotto costa meno dove i lavoratori sono più sfruttati (sai che novità!).

Quanto, poi, ai tempi brevi entro cui il lavoro umano è destinato a sparire soppiantato da robot, droni e simili, diremo nel prossimo articolo.

Avrei una proposta da fare: perché non imponiamo per legge che ogni prodotto abbia un bollino che garantisca la provenienza da un paese in cui sono rispettati i diritti sindacali minimi, invitando tutti i lavoratori a boicottare le merci sfornite di quel bollino, perché provenienti da paesi dove non ci sono libertà sindacali (Cina, Etiopia, Thailandia, Birmania, Taiwan eccetera)? So di aver provocato una stretta allo stomaco di molti compagni che non amano vedere la Cina in certa compagnia, ma la verità è la verità.

La fine del lavoro è una bufala inventata in funzione dell’ideologia neo liberista: se il lavoro umano non è più necessario o lo è solo in misura ridotta, perché la creazione delle merci necessarie è fatta prevalentemente dalle macchine (cioè dal capitale fisso, e in regime di proprietà privata questo significa il Capitale e basta) vuol dire che il lavoro umano ha meno valore del passato, ed è giusto retribuirlo di meno, mentre è giusto aumentare la quota del profitto. Il mercato, nella sua infinita saggezza, svaluta il lavoro come fattore meno importante della produzione, perché si trova in eccesso, mentre premia il capitale che è “scarso” relativamente alla domanda per produzione di macchine che poi produrranno altre macchine. Il reddito di cittadinanza è l’accettazione di questo ordinamento sociale e di queste dinamiche salariali: la proposta più di destra che si possa immaginare.

Oggi la lotta di classe si fa a livello internazionale e chi vuole il reddito di cittadinanza fa lotta di classe, ma dall’altra parte della barricata, a fianco degli sfruttatori dei cui profitti spera di partecipare. Quanti danni ha fatto l’ideologia dell’Autonomia!

E c’è anche altro da dire, ma proseguiremo in un altro pezzo.




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