mercoledì 8 febbraio 2023 - Phastidio

La corsa al litio: vantaggio cinese, ritardi americani, debolezza europea

Gli Stati Uniti cercano di ridurre a colpi di sussidi l'ampio gap con la Cina per approvvigionamento e raffinazione del prezioso minerale. L'Europa rischia di essere il vaso di coccio

 

Mentre gli Stati Uniti non sembrano disposti a modificare in modo sostanziale il loro Inflation Reduction Act, che garantirà quasi 400 miliardi di sussidi “verdi” in dieci anni alle aziende operanti in territorio americano, e mentre la Ue sta elaborando una risposta che potrebbe vedere un mix tra ulteriore allentamento degli aiuti di stato e la creazione di un fondo “sovrano” composto dai residui del Recovery Plan e poco altro, ma senza gli agognati (dagli italiani) eurobond, la transizione ambientale occidentale scopre nuovi colli di bottiglia. Ad esempio quello del litio.

RADDOPPIO DI PREZZI

Minerale fondamentale per i veicoli elettrici, il cui prezzo a fine 2022 è raddoppiato a 75.000 dollari la tonnellata. Occorre trovare nuove fonti e creare raffinerie per processarlo. Il tutto, nella strategia di Washington, senza approvvigionarsi da Pechino né da qualsiasi altro paese “non amichevole”.

Come riporta il Financial Times, l’Amministrazione Biden ha offerto agli australiani di Ioneer un prestito condizionato da 700 milioni di dollari per sviluppare una miniera e un impianto di lavorazione in Nevada. L’estrazione potrebbe iniziare nel 2026, ma sono già stati stipulati contratti di fornitura con Ford e Toyota. La produzione potrebbe essere sufficiente per circa 400 mila veicoli elettrici l’anno.

Il sostegno finanziario pubblico statunitense alla filiera, contenuto nell’Inflation Reduction Act, poggia soprattutto ma non solo sui benefici fino a 7.500 dollari per gli acquirenti di veicoli elettrici prodotti da aziende che si approvvigionano di componenti e materie prime negli Stati Uniti o in paese con i quali Washington scambia in regime di free trade inteso non nel senso di un formale trattato ma anche solo di “amicizia” e partnership.

L’amministrazione ha poi invocato il Defense Production Act, una legge creata durante la Guerra di Corea per dirigere la produzione domestica verso lo sforzo bellico, e ha erogato sinora 2,8 miliardi ad una ventina di aziende impegnate nella filiera dei veicoli elettrici, oltre ad aver attivato accordi con Canada, Ue, Regno Unito e Australia per investire in progetti estrattivi critici.

IL VANTAGGIO CINESE

In questa corsa al litio e agli altri minerali critici per la filiera dei veicoli elettrici, gli Stati Uniti devono misurarsi con la competizione e la capacità produttiva cinesi ma anche con vincoli interni che in Occidente ben conosciamo. Pechino sta aggressivamente firmando accordi in Africa e soprattutto America Latina per approvvigionarsi di minerali in contesti regolatori meno stretti, da destinare alle proprie raffinerie domestiche.

La Cina ha infatti l’80% della capacità globale di lavorazione dell’idrossido di litio, un vantaggio strutturale difficile da erodere in tempi ragionevoli. Occorre poi fare i conti con i vincoli interni legati ai processi di autorizzazione dell’attività estrattiva. Negli Stati Uniti questo è un oggettivo problema, legato alle valutazioni di impatto ambientale.

Il Nevada ha una sola miniera di litio in esercizio e un’altra attende la pronuncia di un tribunale a seguito dei contrasti con organizzazioni di conservazione ambientale che difendono una rara specie di fiore selvatico. Un destino simile ha interessato un progetto di miniera in North Carolina, che non ha superato i vincoli ambientali costringendo Tesla a ricorrere a forniture dal Canada.

Lo sviluppo della filiera degli EV necessita di attività estrattiva che ha un impatto ambientale, e della creazione di capacità di lavorazione di tali minerali che a sua volta richiede tempo e denaro, oltre che ostacoli amministrativi. La competizione tra americani e cinesi vede questi ultimi in palese vantaggio, sia per gli apparentemente minori vincoli provenienti dai territori domestici alla creazione di strutture di estrazione e lavorazione, sia per l’aggressiva attività cinese in America Latina, l’ex cortile di casa di Washington, dove si prevede nel prossimo decennio un vero boom di attività estrattiva di minerali critici per la transizione.

EUROPA, TRA VINCOLI AMBIENTALI E FINANZIARI

Nel mezzo, l’Europa. Che partecipa alle attività di finanziamento di progetti estrattivi ma che rischia di essere indebolita dalla capacità di attrazione dei sussidi ambientali americani. Al World Economic Forum di Davos John Kerry, l’inviato speciale per il clima della Casa Bianca, ha invitato la Ue a procedere rapidamente con una propria versione dell’Inflation Reduction Act, per ridurre i tempi di sviluppo della strategia occidentale. Perché, per usare le parole di Kerry, servono “soldi, soldi, soldi”.

Anche nel nostro continente il tentativo di aprire miniere di litio e impianti di raffinazione subisce forti ostacoli da parte delle popolazioni locali. Ne sono esempio il progetto da 2,4 miliardi di dollari della miniera serba di Jadar, che gli anglo-australiani di Rio Tinto puntavano a sfruttare ma che è finito in stallo per la resistenza delle comunità locali, che ha portato alla revoca delle iniziali autorizzazioni da parte del governo serbo. O la cancellazione di un progetto minerario in Portogallo, per decisione governativa.

A queste evidenti criticità, che confermano che non esiste un’ossimorica cosa chiamata Green Mining, si aggiunge la richiesta della Agenzia Chimica Europea (ECHA) di considerare i sali di litio come pericolosi per la salute umana, e di conseguenza assoggettarne estrazione e lavorazione ad un più stringente e oneroso quadro regolatorio. Che potrebbe far pendere la bilancia dei costi a favore delle importazioni anziché della produzione locale, con tutte le vulnerabilità geopolitiche conseguenti.

La Ue dovrà dare risposte a queste criticità operative e finanziarie. Tenendo presente che, se il nuovo “fondo sovrano” sarà solo il reimpacchettamento dei residui non spesi del Recovery Fund e poco altro, i singoli paesi dotati di capacità fiscale agiranno da soli, con relativa minaccia all’integrità del mercato unico. A quel punto, la maggiore vittima sacrificale sarà l’Italia, con la sua assenza di spazi di manovra fiscale.

Photo by Dan LundbergCC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

 




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