mercoledì 31 luglio 2019 - Pino Mario De Stefano

La battaglia dell’immaginario

Noi pensiamo con il corpo. Non siamo una “res cogitans” ma un corpo pensante: il nostro pensiero è sempre “pensiero incarnato”, perciò anche necessariamente “situato”. 

Anche per questo immagini, simboli ed archetipi, accompagnano sempre e determinano spesso - non soltanto nel suo sorgere come nel pensiero infantile o in quello “primitivo” - il nostro modo di pensare e le nostre costruzioni concettuali. E alimentano così sentimenti, emozioni, desideri, bisogni. 
 
Anche i concetti più “astratti” implicano in forme varie un non-detto, fatto di immagini, metafore e simboli, spesso silenti e inconsapevoli. Non credo che occorra scomodare Hans Blumenberg per comprendere che ogni pensiero o teoria, anche scientifica o matematica, è in sostanza un sistema di metafore.
 
In effetti, il potere delle immagini, il potere dell’ordine del simbolico è decisivo in ogni nostra esperienza. È importante riflettere sul fatto che, così come “ogni politica degna di questo nome agisce anche [e a volte soprattutto] a livello simbolico” (Luisa Muraro), anche qualunque relazione educativaformativacomunicativa, si colloca anche sul piano simbolico. Perciò qualunque analisi, confronto, relazione o progetto che non parta da una indagine e presa in carico dell’immaginario dell’interlocutore o degli interlocutori, è destinato a rimanere in superficie e inefficace. Insomma qualunque teoria, dottrina o argomentazione che non prenda le mosse dall’immaginario e dal simbolico, quello nostro e quello dell’altro, corre il rischio dell’irrilevanza e della non pertinenza
 
Non si supera però il filtro delle immagini attraverso un’operazione puramente concettuale o argomentativa e ideologica. Senza un intervento e un cambiamento nell’ordine del simbolico che miri per esempio a rompere o smontare dispositivi simbolici e stereotipi che imprigionano la realtà e il pensiero invece di liberarli, ogni battaglia o strategia culturale rischia di girare a vuoto.
 
Per esemplificare su due questioni attuali.
 
Come si può dare il senso del sapere contemporaneo come reticolareiper-testuale e interconnesso, se non si supera l’immagine ereditata e stabilmente consolidata in ognuno di noi, anche quelli più colti, che rappresenta il sapere e le conoscenze umane come un edificio?
 
Cosa non funziona? Il sapere come edificio diventa essenzialmente un sapere-deposito o un sapere-patrimonio di cui non si riesce a cogliere il divenire, o la sua conservazione attraverso la trasformazione.
 
Cosa manca al sapere, immaginato come edificio verticale, che cresce per accumulazione progressiva? Un sapere cioè fatto di piani sovrapposti
Manca la disponibilità a cogliere le relazioni tra i saperi. Con la conseguente tendenza a considerare alcuni saperi come superati e cancellati da quelli del piano successivo e superiore. Il che comporta la tendenza a rifiutare la tensione costruttiva e creativa tra passato e presente, tra il sapere di un gruppo e quello di un altro, tra una cultura e le altre culture. 
 
Tutto ciò è all’origine dell’incapacità a pensarsi prodotti anche di una incancellabile relazione con l’altro e con gli altri; e quindi dell’idea fasulla di poter salvare la propria cultura e se stessi chiudendosi entro mura ben fortificate.
 
Pensiamo poi, seconda questione, a quanto possa essere rischiosa la metafora delle radici a cui pure oggi si ricorre così sovente, per salvaguardare non si sa bene cosa. E l’ambiguità è proprio nella metafora e nell’immagine utilizzate.
 
Perché il ricorso alle radici spinge a pensare agli uomini come alberi, nota Francesca Rigotti citando Maurizio Bettini, (Migranti per caso, Cortina ed.), alberi “nutriti dalla linfa di un unico terreno”, un’immagine cioè “che suggerisce che è meglio per loro e per tutti che se ne stiano sul loro suolo natio”. 
 
È evidente che un’immagine del genere determina tutto un orizzonte di pensiero, con le relative emozioni, il cui costo sociale può essere elevato e dirompente, anche se non ne siamo consapevoli.
 
Diverso sarebbe il caso della metafora del fiume e degli affluenti che non ci rende prigionieri delle nostre origini, perché le vede come un flusso di movimenti o trasformazioni, non distruttive. L’acqua di questa nostra terra, infatti, notava Scoto Eriugena, filosofo e teologo altomedievale, è capace di tutte le forme possibili.
 
Un’immagine ancora diversa, e liberante, per rappresentarsi le radici, potrebbe essere offerta dalla metafora del rizoma, suggerita da Deleuze e Guattari. Essa come “insieme di filamenti sotterranei, molto sottili...che assumono forme diverse estendendosi in molte direzioni” (Rigotti) sarebbe in grado di determinare ancora un altro orizzonte di pensiero, che a sua volta produrrebbe una diversa consapevolezza, altre reazioni, altre emozioni ed altri atteggiamenti, di fronte a molti problemi attuali.
 
È evidente che possono modificarsi totalmente le modalità di pensare la realtà a seconda che usiamo una metafora o altre.
 
La battaglia dell’immaginario e il posizionamento nell’ordine del simbolico sono probabilmente, oggi, il compito più urgente, a cui dedicare tutte le energie possibili.



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