mercoledì 24 maggio 2023 - Phastidio

La Turchia non rischia il cambio ma il cambio è a rischio

Mentre Erdogan si avvicina alla riconferma elettorale, i mercati iniziano a scaldare i muscoli per il grande assalto al demenziale fortino che sorregge artificialmente la lira

 

Mentre si avvicina il ballottaggio delle presidenziali, che dovrebbe vedere vincitore Recep Tayyip Erdogan sul rivale Kemal Kilicdaroglu, in Turchia il cambio della lira inizia a prendere volatilità, con oscillazioni giornaliere del 5%, anche se per ora le autorità monetarie riescono a controllare gli strappi ribassisti. Ma operatori di mercato e osservatori sono convinti che, data l’insostenibilità delle misure di sostegno al cambio, quando le elezioni saranno alle spalle, la probabilità di una resa dei conti sia destinata a crescere.

Come sappiamo, Erdogan si dichiara visceralmente contrario a combattere l’inflazione alzando i tassi. Che sia per intime convinzioni religiose o altro, e disponendo di una banca centrale addomesticata, il Sultano è sin qui riuscito a pilotare al ribasso i tassi cercando di neutralizzare il fisiologico crollo del cambio indotto da tassi reali fortemente negativi. Nel frattempo la corsa dei prezzi, che stava approcciando il 100% annuo durante la fase più acuta della crisi energetica, è scesa intorno al 40% annuo, permettendo al Sultano di sostenere che la sua ricetta eterodossa funziona.

LA LIRA E LA FORZA DI GRAVITÀ

I mercati si sono convinti che, dopo le elezioni, qualcosa dovrà accadere. Nel senso che la lira dovrà deprezzarsi pesantemente e i tassi dovranno letteralmente decollare. Forse, una volta incassata la conferma presidenziale, Erdogan chiamerà il timeout e comunicherà al popolo che ora serve cambiare rotta. In caso non la pensasse così, i mercati stanno già saggiando le difese della banca centrale.

Che sin qui sono state soprattutto l’indebitamento in valuta presso “paesi amici”, per rimpolpare le riserve valutarie e poterle immolare pugnacemente per difendere un cambio sopravvalutato in modo demenziale, e una serie di misure amministrative per tenere bassi i tassi domestici, ad esempio imponendo alle banche commerciali obbligo di comprare titoli di stato, e frenando la domanda di valuta. Tutto per non arrivare a controlli espliciti sui capitali che Erdogan fa mostra di non gradire, forse per non danneggiare l’immagine di una Turchia “aperta per business”.

Nel frattempo, giova ricordare che l’iniziativa nota come “de-dollarizzazione”, che prevede che i depositi in lire siano indicizzati al cambio del dollaro in caso di deprezzamento (il peggiore dei mondi possibili) ha toccato i 120 miliardi di dollari e rappresenta una passività sempre meno potenziale e sempre più reale sulle spalle del sinora contenuto debito pubblico turco. Forse per questo il credit default swap del paese, che esprime il rischio di credito sovrano, è tornato a lievitare superando i 700 punti base.

Ma il paese continua a bruciare riserve (prese a prestito) e la tendenza si è accentuata proprio a ridosso del primo turno elettorale, con un calo del 15% in un bimestre, mentre il saldo delle partite correnti, che preme sul cambio, rallentava il suo deterioramento anche per effetto della sospensione delle importazioni di oro, decisa dopo il catastrofico terremoto di febbraio. La banca centrale si è quindi sostituita alle importazioni di oro, che traggono vigore dal desiderio di proteggere il potere d’acquisto, ma anche questa non è una soluzione stabile, per evidenti motivi. Vedremo se anche nel 2023 proseguirà il misterioso afflusso di valuta, classificato nella voce errori ed omissioni di bilancia dei pagamenti, che ha permesso di limitare l’emorragia lo scorso anno, e che non è chiaro se dovuta a rimpatri da parte di residenti o esportazione occulta di capitali da parte, ad esempio, di cittadini russi preoccupati. Un fenomeno peraltro non nuovo, nei conti con l’estero turchi: già nel 2015 si registrarono simili afflussi di capitali opachi, risoltisi nel deflusso dopo pochi mesi, che vennero attribuiti a fughe di capitali da Iraq e Siria verso la Turchia.

Per smorzare la domanda di valuta, il governo ha autorizzato le banche a offrire tassi più alti: i depositi a tre mesi prima delle elezioni erano arrivati a superare il 30% su base annua. Ma questo, ovviamente, ricade sulle condizioni di credito, alzando i tassi sui prestiti che tanto dispiacere causano al fedele Erdogan. Insomma, la coperta è sempre più corta.

LA PERDITA DI COMPETITIVITÀ AVANZA

Iniziano, nel frattempo, anche effetti collaterali piuttosto significativi della sopravvalutazione del cambio della lira: ad esempio, il fashion retailer online britannico Boohoo avrebbe chiesto ai fornitori turchi di allinearsi ai prezzi benchmark che il gruppo ottiene in Pakistan, pena la cancellazione degli ordini. Il che significa un taglio del 30%, che i turchi giudicano insostenibile. Vero che il gruppo britannico sta cercando di contrastare l’inflazione usando la propria forza contrattuale verso i fornitori, ma questa attenzione speciale alle 250 aziende turche che la riforniscono pare indicare soprattutto una perdita di competitività di quest’ultime.

Altra evidenza del genere è il riorientamento della domanda turistica domestica turca verso destinazioni greche o egiziane. Se la tendenza dovesse rafforzarsi, Erdogan avrebbe un problema in più nei deflussi valutari, e dovrebbe mettere mano a misure di contenimento che porterebbero la Turchia a percorrere il sentiero dell’Argentina.

Un percorso visibile anche nel crescente contingentamento che le autorità monetarie impongono agli acquisti di dollari da parte delle banche, per conto della clientela. Il problema è che quella valuta serve, tra le altre cose, per pagare le importazioni. Pare che le aziende turche nelle prossime settimane e mesi si troveranno a scegliere se perdere esportazioni a causa di costi troppo elevati o per ritardi connessi al reperimento della valuta. In caso, è ancora il copione argentino che potrebbe “aiutare”, con la creazione di una pletora di tassi di cambio della lira in funzione del tipo di attività economica. Seguirà anche qui telefonata a Pechino per lottare contro l’egemonia americana sul pianeta e chiedere swap in renminbi? Ah, saperlo.

Come detto, da lunedì 29 maggio, con il nuovo mandato presidenziale, Erdogan dovrà decidere che fare di una situazione sempre meno sostenibile perché basata su un livello del cambio artificiosamente elevato. Sarà un periodo certamente interessante, sia per chi è convinto che in economia non esistano “leggi” e sia possibile ottenere la gravità negativa e invertire il corso dei fiumi, sia per quanti si chiedono da tempo quale sarà l’ultimo atto di questa commedia bizantina.

Mi pare comunque corretto che a completare questa ardita opera valutaria, ed eventualmente farsela finire in testa, sia colui che l’ha iniziata. Il popolo turco pare aver scelto a maggioranza di non cambiare. Per il cambio della lira, mantenere lo status quo appare molto più difficile.

Foto di Melanie Simon da Pixabay

 




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