martedì 28 luglio 2009 - Damiano Mazzotti

La Primula Nera: trent’anni di misteri mafiosi italiani

“La primula nera” è un libro sulla vita di Paolo Bellini: un abile killer doppiogiochista italiano (www.alibertieditore.it, 2009).

L’autore è Giovanni Vignali, un giovane giornalista che ha colmato un vuoto mediatico su questa figura ambigua e sfuggente, che si è mossa ai margini di alcune delle vicende più oscure e sanguinose del dopoguerra italiano.

È molto difficile sintetizzare l’intensa vita criminale di quest’uomo, che potrebbe anche avere avuto a che fare con l’esplosivo militare utilizzato per la strage di Bologna, forse impiegato per depistare e coprire la verità sulla strage aerea di Ustica, nel giugno 1980. Quindi è molto meglio limitarsi a prendere in esame il periodo più critico della Repubblica Italiana: gli anni intorno al 1992-1993.

“Il periodo più insanguinato d’Italia. Il Paese sembrava al collasso, con l’economia sull’orlo del precipizio e Cosa Nostra scatenata come mai nel passato… erano stati trucidati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sangue altrettanto innocente aveva macchiato città come Milano, Roma, Firenze… Molti hanno focalizzato la propria attenzione attorno alla famosa trattativa tra uomini del Ros e uomini come Vito Ciancimino che parlava con i capi di Cosa Nostra… Sono stati pochi, invece, coloro che si sono occupati di quella che si potrebbe definire una trattativa minore che ebbe come suo protagonista assoluto Paolo Bellini” (p. 10).

Bellini è stato un uomo misterioso dalle mille maschere e “uno dei grandi interrogativi che non hanno trovato una risposta certa è il rapporto di Bellini con uomini degli apparati dello Stato. Bellini ha negato, con ostinazione di far parte dei servizi segreti. Il mafioso Antonino Gioè si è portato questo dubbio nella tomba. Quando decise di porre fine alla sua vita scrisse nella sua lettera-testamento: “… supponendo che il signor Bellini fosse un infiltrato”. Gioè non era un mafioso qualunque, era un uomo di Riina, faceva parte della commissione provinciale di Cosa Nostra, riferiva direttamente a Brusca” (p. 12). Antonio Gioè era stato anche il probabile possessore del telefono cellulare “fantasma” (disattivato da mesi), utilizzato il giorno della strage di Capaci, per fare diverse chiamate ad un numero americano del Minnesota.

Comunque per Bellini e per tutti gli uomini che hanno passato molto tempo dietro alle sbarre: “il carcere continua a essere la scuola di specializzazione per l’alta delinquenza, il luogo privilegiato per incontri che spesso segnano il futuro di molti detenuti” (Enzo Ciconte, p. 101).

Questa è la visione proposta da Paolo Bellini: “Quando tu vai dentro con un’imputazione di omicidio, sei quel tipo, quel soggetto, c’è chi cerca di pescarti… vieni studiato in carcere, guardato processualmente, l’omertà, non l’omertà, ti controllano, ti verificano. Questo è, avvocato, questa è la realtà che non fanno vedere nei filmettini” (p. 104).

E in carcere Paolo Bellini venne a conoscenza della strategia di attacco allo Stato voluta da Salvatore Riina, che durante una riunione dei capi affermò: “Si fa la guerra per poi fare la pace”. Dopotutto questa strategia è in realtà la rivisitazione dello “stile dei brigatisti anni Settanta: usare i media per spaventare la popolazione e indurre a più miti consigli uomini dello Stato” (p. 156).

Di certo la mafia alzò il tiro e iniziò una lotta all’ultimo sangue, e lo Stato italiano preferì concordare una tregua per salvare i suoi pozzi di petrolio: il suo inestimabile patrimonio artistico (messo in pericolo dagli attentati di Milano, Firenze e Roma). E forse anche l’attentato a San Giovanni in Laterano, la sede ecclesiastica ufficiale del Papa (nel 1993 vi dorme monsignor Camillo Ruini, segretario della Cei), ha spinto la Chiesa Romana a sottostare alle richieste dei mafiosi di permettere un agevole e veloce riciclaggio del denaro sporco nella banche vaticane. Inoltre, né lo Stato italiano, né la Città del Vaticano avrebbero potuto rischiare di mettere in pericolo S. Pietro, con tutti i relativi e inestimabili danni a livello economico e di immagine. Chi può dire se questa scelta andreottiana della tregua di Stato sia stata giusta o sbagliata? Del resto quanti italiani avrebbero avuto il coraggio di portare avanti una rischiosa lotta all’ultimo sangue contro i mafiosi?

C’è però da dire che all’epoca erano i politici a dettare le regole da rispettare ai mafiosi, mentre ora sono i mafiosi che dettano le regole di condotta ai politici. Solo una cosa è certa: l’Italia da sola non può farcela. Solo con l’istituzione di un tribunale europeo specializzato sulla mafia e di un corpo di polizia europeo impiegato e addestrato specificatamente contro i mafiosi si potranno ottenere dei risultati nei confronti dell’attuale fenomeno della criminalità organizzata che ha oramai raggiunto dimensioni pienamente europee e internazionali. E bisogna arrivare all’obiettivo di considerare tutti i delitti di mafia, dalle estorsioni agli omicidi, come delitti contro l’umanità. È ora di ammettere che si tratta di una vera e propria guerra civile economica che sta distruggendo le basi vitali delle attività imprenditoriali e anche la vita della gente onesta in molte zone d’Italia.

Dunque non ci resta che sperare nell’iniziativa innovativa e nel coraggio di qualche nuovo deputato europeo. E invece di mandare i nostri uomini migliori a disperdersi in Afghanistan sarebbe meglio iniziare ad impiegarli per far fuori i nostri fondamentalisti del crimine. E forse in un giorno non troppo lontano inizieremo a spedire in un remoto e sorvegliatissimo campo di lavoro della Siberia, i nostri criminali più pericolosi insieme a quelli più mafiosi d’Europa.

 P. S. Paolo Bellini ha confessato l’omicidio di Giuseppe Fabbri nel 1999, ben consapevole che per la stupida legge italiana (fatta dai politici più furbi), non si può riaprire un processo su un omicidio per il quale un imputato è già stato dichiarato innocente.




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