martedì 17 marzo 2020 - Phastidio

La PA al tempo dell’emergenza: appunti per il dopo

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

non c’è niente da fare: per la Pubblica Amministrazione fa più paura la Corte dei conti del coronavirus. Sono, infatti, ancora tantissimi i tentennamenti nell’estensione del lavoro agile, così come moltissimi gli imbarazzi nell’acquisizione di banali presìdi di igiene.

Parliamoci chiaro: il lavoro agile è stato trasformato, per la pubblica amministrazione, nell’ordinaria modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Ma, l’abitudine all’apparire più che all’essere, la forma che prevale sulla sostanza, sta causando ritardi. Infatti, chi nella sua carriera mai è stato abituato ad organizzare il lavoro per processi e risultati, non è in grado di immaginare progetti lavorativi con un minimo di credibilità da far fare a casa. E così, ancora troppi impiegati pubblici, che pure potrebbero stare a casa consentendo la riduzione del contagio, sono mandati in giro. Inutilmente. Specie nei territori della Lombardia.

Il timore è che, poi, “qualcuno”, cioè la Corte dei conti, possa alzare il ditino malmostoso ed agire per attivare l’azione di responsabilità dovuta all’assegnazione “impropria” del lavoro agile.

La PA ha le sue responsabilità chiare, per aver dormito anni e anni e non aver fatto nulla per attivare la digitalizzazione. Certo, però, bastava essere chiari: il lavoro agile in una PA priva di strumenti come la Cassa integrazione altro non è se non un ammortizzatore sociale mascherato. Bastava togliere la maschera.

E a proposito di maschere, senza entrare troppo nella polemica tra Ragione Lombardia e Protezione Civile sui fazzolettini di carta ripiegati a forma di mascherina recapitati in Lombardia, non si può non sottolineare come questo episodio riveli l’inadeguatezza concettuale, prima ancora che normativa ed organizzativa, della pubblica amministrazione.

Dirigenti ed uffici sono stati talmente abituati alle pastoie, da non riuscire a spezzare in alcun modo queste micidiali catene, nonostante il periodo di emergenza. E quindi, anche per acquisti di imperiosa emergenza, si continua a “giocare” con due delle norme più complesse e astruse esistenti: il codice dei contratti e la disciplina della contabilità di Stato.

Due complessi normativi fatti apposta per complicare, allungare, confondere, sbrodolare. E, spesso, per ottenere prodotti di qualità scarsissima: dai lavori pubblici, ai servizi resi, agli oggetti acquisiti (celeberrime furono, all’inizio degli anni 2000, le spille delle puntatrici fornite dalla Consip, di dimensione minore dello standard e, quindi, inidonee a spillare e le matite la cui punta era di burro).

La complessità del codice dei contratti la si conosce da tempo. Anche se nel codice esiste la norma che consentirebbe, in questa fase, di andare giù duri nell’acquisto di quanto serve senza gara alcuna: l’articolo 63. La lettera c), del comma 2 di tale norma stabilisce che è possibile l’affidamento senza bando, senza gara,

[…] nella misura strettamente necessaria quando, per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall’amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati. Le circostanze invocate a giustificazione del ricorso alla procedura di cui al presente articolo non devono essere in alcun caso imputabili alle amministrazioni aggiudicatrici.

Non le sembra, Titolare, che vi siano le “ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall’amministrazione”? Dobbiamo proprio pensare davvero che un domani una Corte dei conti possa intervenire su appalti d’urgenza, per negare che vi fosse l’emergenza? Dobbiamo ammettere che se questo davvero accadesse, quel magistrato, quella Sezione, potrebbero continuare a fare quel lavoro?

In ogni caso, le pastoie, anche laddove si potessero con mente serena utilizzare strumenti di “appalto agile”, non si fermano qui.

Perché poi scattano le micidiali regole di contabilità pubblica. L’appalto, anche se realizzato al volo, richiede: il capitolato, la determinazione a contrattare (il provvedimento che contiene il perché e il percome si procede) con l’impegno di spesa; che poi deve passare all’ufficio di ragioneria, chiamato a mettere il “visto” di regolarità, oppure, negli enti regionali o statali, negli altri uffici di controllo contabile; deve seguire, poi, nelle dovute forme la sottoscrizione del contratto, la formalizzazione dell’ordine all’azienda, cui consegue tutta quella congerie di verbali e carte della gestione del rapporto.

Per i pagamenti, poi, il caos. Le fatture sono on line: ma se i sistemi informatici sono blindati e non consentono la connessione da remoto, allora tanti dipendenti debbono continuare ad andare in giro per uffici a “scaricare” la fattura, che poi deve essere liquidata con provvedimento. Ma, attenzione, il pagamento è condizionato dalla verifica della regolarità fiscale delle aziende (cosa che tra pochi giorni sarà impossibile) e dalle altre folli verifiche imposte recentissimamente dal d.l. 124/2019, convertito in legge 157/2019, norma che più improvvida, intempestiva ed inopportuna non si sarebbe potuta rivelare.

E vogliamo parlare dello “split payment”? E vogliamo parlare dell’assurdo obbligo, frutto di malintese pulsioni verso la “concentrazione” delle stazioni appaltanti in poche centrali, di acquisire beni solo da Consip o altre centrali acquisto regionali?

Si è creato un piccolo oligopolio di centrali d’acquisto, che sul piano pratico ed economico è totalmente insensato. Infatti, queste centrali, a meno che non facciano appalti “per conto” delle PA, sì che queste possano semplicemente aderire alle convenzioni con gli appaltatori, non assicurano né tempi ridotti, né prezzi migliori del mercato.

Al di là di questo, comunque, il protocollo di sicurezza in azienda (non direttamente applicabile, pare, alla PA, ma del quale sembra assurdo non tenere conto) prevede alcune misure. Per esempio, la misurazione della temperatura di chi, nonostante tutto, comunque si rechi in ufficio.

Titolare, provi a rispondere: secondo lei, quante sono le PA che dispongono di un termometro laser per misurare la temperatura? Qualche 0 virgola. Allora, bisognerebbe comprarlo. Scatenando il processo contabile e gestionale sintetizzato prima, già farragino e kafkiano in “tempo di pace”. Figurarsi ora.

Assordati dagli abbai populisti contro gli “scontrini” e le “carte di credito”, nemmeno ci si è azzardati a pensare di fornire a dirigenti e funzionari carte di credito prepagate (quindi con impegno di spesa generale già adottato e con rendicontazione “automaticamente” prodotta dal circuito di adesione), per consentire loro acquisti veloci, anche nei mercati privati e nelle piattaforme non appartenenti all’oligopolio creato dalla smania di Consip.

Un dirigente farebbe molto prima ad ordinare on line con carta di credito prepagata su Amazon il termometro, l’amuchina, i guanti, le pezze, i disinfettanti. Ma, c’è lo split payment; c’è la Corte dei conti; c’è la Consip.

Quindi, molti si sono attrezzati comprando di tasca propria questo materiale sperando un domani che la Corte dei conti non obbietti se, da sopravvissuti, chiederanno all’ufficio economato il rimborso (si badi, Titolare: in contanti! Previa sottoscrizione in calce dell’apposito regolare modulo, debitamente compilato!).

Purtroppo, il virus sta mietendo molte più vittime di quanto solo pochi giorni fa si poteva immaginare. È da sperare che tra le vittime risultino, per sempre, norme, regole, pastoie e abitudini procedurali e contabili da anni palla al piede di tutti.

E da ultimo: ma cosa ancora esita il Governo a sospendere tutti i termini dei procedimenti, con l’eccezione di quelli imperiosamente necessari a garantire beni irrinunciabili della vita?

 




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