martedì 10 maggio 2022 - Mattia Perna

La Giornata della Vittoria e il revisionismo italiano

27 milioni di morti. Di vite spezzate. Di uomini, donne, bambini che non fecero più ritorno a casa. 27 milioni è la stima delle vittime sovietiche (militari e civili) nella Seconda Guerra Mondiale. Il prezzo più alto per la popolazione civile sovietica e per i suoi partigiani fu pagato nel corso delle operazioni militari del 1941-1945 sul Fronte Orientale, in seguito all'attacco lanciato dalla Germania nazista.

La celebrazione del martirio rischia di trasformarsi in qualcosa di astratto, indeterminato e fine a se stesso in cui l'oggettività viene messa in secondo piano.

Dallo scoppio della guerra in Italia è partita una durissima campagna mediatico-bellica contro tutto ciò nato dall'altra parte della «Cortina di Ferro», catapultandoci in quel Mondo diviso in due blocchi di trent’anni fa. Dostoevskij con i suoi splendidi romanzi, il corpo di Danza che si è esibito al Teatro San Carlo di Napoli, il primo uomo nello spazio Jurij Gagarin: tutti sono finiti nel calderone dell' anti-Putinismo italiano (non molto dissimile dall’anti-Berlusconismo degli anni 2000) come oggetti della propaganda russa.
La viltà della politica italiana nell’affrontare tutto ciò dimostra sempre di più un’incapacità nella gestione di temi particolari e caldi. Ulteriori conferme sono arrivate qualche settimana fa con la vergognosa approvazione del Senato della «Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini», per ricordare «l’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka». 

La Battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio 1943 fu un episodio di guerra del Fronte Orientale, in cui l’Italia fascista partecipò al fianco della Germania nazista con il corpo degli alpini. Per il fascismo la campagna in Ucraina si trasformò in una disfatta. Nel silenzio più assoluto, il revisionismo politico continua ad operare nella memoria collettiva degli eventi. Se davvero la Storia non è un romanzo – e aggiungerei neppure una fiction – la sedimentazione della distorsione memoriale porta a credere che la liberazione di Auschwitz sia stata operata dall’Esercito Americano; oppure per le vicende legate al contenzioso nel confine orientale italiano davvero siano morte fra le 300 e 500 mila persone perché «colpevoli di essere italiani».

Del resto neanche la programmazione televisiva riesce a raccontare l’oggettività del corso degli eventi. Le produzioni firmate RAI su Giorgio Perlasca, Arrigo Petacco, Italo Balbo, sulle foibe hanno romanticizzato vent’anni di oppressione fascista, di guerra, di dittatura militare, rendendo quasi umano un’ideologia che di umano non aveva nulla.

Per settimane abbiamo dovuto assistere all’estenuante identificazione della lotta partigiana nella Guerra civile in Italia del 1943-1945 con le attività del Battaglione Azov a Mariupol.
La Resistenza in Italia si caratterizzò sin da subito con determinati principi: la lotta contro il nazifascismo, contro l’occupazione della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e capovolgere il quadro istituzionale. Le formazioni ribelli erano unità distaccate dall’esercito regio, composte da volontari animati da spiriti politici diversi (comunisti, socialisti, anarchici, monarchici, repubblicani, cattolici, liberali ecc).


In Ucraina Azov, Pravyj Sektor (Settore Destro) e Svoboda non sono una risposta spontanea e popolare all’aggressione militare russa, ma quella decisa da Zelensky: queste organizzazioni – animate da un fortissimo nazionalismo – sono inquadrate nell’esercito ufficiale ucraino. Negli anni sono state accusate di numerose aggressioni, omicidi, stragi e torture contro la popolazione civile ed inerme.

Le fantasie della propaganda revisionista non hanno lasciato nulla sulla strada: secondo l’Huffington Post dietro l’uccisione dell’ex segretario della DC Aldo Moro, ad opera dalle Brigate Rosse, ci sarebbe lo zampino dell’Unione Sovietica. Il motivo? Aldo Moro venne ritrovato nella Renault di Via Caetani a Roma il 9 maggio, giorno scelto dall’Unione Sovietica per festeggiare la «Giornata della Vittoria» sul nazismo. «La cancellazione dalla consapevolezza collettiva della coincidenza di quelle due date la si può apprezzare solo oggi», scrive l’autrice dell’articolo.
Sarebbe interessante se qualcuno si occupasse della misteriosa scelta del progetto musicale made in Naples «Liberato» di pubblicare una canzone ogni anno il 9 maggio (già il nome ci del cantante/progetto suggerisce qualcosa). Oppure la strana similitudine che intercorre con la proclamazione dell’impero fascista italiano (9 maggio 1936).

Dietro a questo continuo rincorrere complottismo e strumentalizzazioni si celano operazioni geometriche di modifica della Storia e della Memoria. L’obiettivo è continuare ad alimentare insicurezza, nemici immaginari, emergenze e pregiudizi nella psicologia collettiva. L’avanzare del revisionismo e il venir meno dell’oggettività attecchisce in momenti drammatici come quello che stiamo attraversando da due anni, in cui lo spirito e le coscienze critiche dell’individuo vengono meno. Marc Bloch scriveva nel 1921 «La falsa notizia è lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti».

Ma l'oggettività della Storia e dei Fatti disfa e mette a nudo tutto mostrandoci «un’altra Storia». Assestando numerose sconfitte all’esercito nazifascista, il 30 aprile 1945 l’Unione Sovietica occupò Berlino conquistando il palazzo del Reichstag costringendo dopo qualche giorno la fine delle operazioni militari nella capitale tedesca L’8 maggio 1945 a Berlino il governo tedesco firmava la resa incondizionata delle forze armate, decretando ufficialmente la vittoria delle forze alleate. La «Giornata della Vittoria», nei paesi situati al di là della «Cortina di Ferro», istituita in memoria della capitolazione di uno degli eserciti più spietati che la storia ricordi, viene celebrata il 9 maggio perché la notizia della resa avvenne secondo il fuso orario di Mosca.

L’Unione Sovietica ha pagato il prezzo più alto fra gli Alleati, con 27 milioni di morti. 
Di questi, circa 8 milioni erano soldati provenienti principalmente dalle classi subalterne e popolari. Agli occhi di quegli uomini e di quelle donne – lavoratori, contadini, studenti – il comunismo, l'antifascismo apparivano l'unica speranza d'emancipazione alternativa alle ingiustizie, all'oppressione e la furia del nazismo. Comunismo voleva dire prendere nelle proprie mani il destino, battersi contro ogni forma di discriminazione e d’occupazione, per una società eguale senza più catene e restrizioni.

 




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