giovedì 15 giugno 2023 - Phastidio

La Corte non conti: l’allergia della politica ai controlli

L'insofferenza della politica per interferenze "esterne", incluse quelle a tutela dei contribuenti, il forte ritardo nella revisione del PNRR: l'ultimo cortocircuito italiano

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

moltissime aziende, specie quelle di produzione alimentare e meccanica, sovente nelle loro pubblicità evidenziano che i loro prodotti sono messi sul mercato solo dopo aver superato una serie di severi controlli. Tutti ricordiamo l’ananas che poteva essere venduto solo se “l’uomo” avesse “detto sì”.

Il controllo di qualità sui prodotti è un elemento fondamentale dell’attività di produzione. È inimmaginabile mandare nei supermercati la mozzarella scaduta (infatti, ci ricordiamo dello scandalo delle mozzarelle blu), o la crema di noccioline indurita e amara, o l’autovettura senza ruote.

Non è, nella sostanza, possibile immaginare un ciclo produttivo privo di controlli, talvolta anche antecedenti alla lavorazione, come nella cernita degli ortaggi effettuata ormai automaticamente dalle macchine.

IL CONTROLLO VISSUTO COME UN PESO

Nella pubblica amministrazione, invece, Titolare, da ormai 30 anni il controllo è vissuto come un peso, come una perdita di tempo, come un onere solo burocratico, che non serve a nulla.

Come se la pubblica amministrazione non fosse in ogni caso un soggetto che produce non creme, non vetture, non abiti, ma provvedimenti, documenti, atti, appalti, concessioni, contributi, benefici, titoli edilizi, licenze commerciali, titoli di studio, cure mediche, certificazioni o, comunque, esiti finali di processi complessi e compositi, come l’esecuzione di piani e programmi ricomprendenti più processi ed attività, magari etero-finanziati dalla UE: il caso del PNRR è eclatante.

È immaginabile, titolare, che, nonostante la PA non commerci i propri prodotti e non agisca in un mercato concorrenziale, gli enti possano distribuire i “prodotti” della propria attività rifilando patacche senza qualità, piene di errori, fuori termini, con l’utilizzazione impropria delle risorse?

Ecco, in Italia è perfettamente immaginabile. Negli scorsi tre decenni è stato perseguito con tenacia meritevole davvero di miglior sorte l’intento di annientare ogni forma di controllo sull’attività della pubblica amministrazione, fraintendendo l’eliminazione della fase di verifica come “efficienza”.

Il professor Sabino Cassese è uno dei principali teorici dell’eliminazione dei controlli, come conferma l’intervento svolto al Festival dell’economia di Trento.

L’idea di fondo propugnata da chi ritiene doveroso ed utile eliminare i controlli è che quelli preventivi e concomitanti determinerebbero sia l’accennato appesantimento burocratico, sia una “cogestione” nell’attività, da parte degli organi di controllo.

Si tratta di visioni oggettivamente non convincenti. Sempre il prof. Cassese evidenzia l’opportunità di controlli a campione e non concomitanti sul processo, ma successivi, sul prodotto.

LA FALLACIA DEI CONTROLLI A CAMPIONE

Ora, Titolare, Ella ricorderà bene le molte polemiche sui controlli relativi all’attribuzione del Reddito di Cittadinanza. In quel caso, applicando rigorosamente il dettato dei controlli a campione e successivi, si è necessariamente determinato l’effetto della concessione del beneficio a tanti soggetti che non ne avrebbero avuto diritto, suscitando, poi, ire e alti lai quando la circostanza è stata scoperta solo dopo e, in particolare, per l’intervento non di organismi di controllo, ma soprattutto di indagini giudiziarie.

Il tema, dunque, è sapere scegliere: preferire il rischio di una gestione erronea, della quale ci si accorge solo quando è terminata, sperando che, utilizzando i controlli a campione, non si finisca nel campione controllato? Oppure, scontare qualche aspetto organizzativo del procedimento, e far sì che i controlli precedano sempre l’adozione delle decisioni?

Non vi sarebbe da dimenticare che l’effetto della cosiddetta “cogestione” di cui parla il Cassese è dovuto ad un’altra serie di scelte, tutte indirizzate da un lato alla verticalizzazione del potere e, dall’altra, a trasfondere il potere di controllo, che è tipicamente amministrativo, in una funzione giurisdizionale.

Lo schema è perfettamente rappresentato nell’ordinamento degli enti locali. Esso ha vissuto una vertiginosa verticalizzazione del potere, concentratosi in modo formidabile sulla figura del sindaco eletto direttamente (per effetto della legge 81/1993). Elezione diretta e concentrazione profonda del consenso popolare hanno portato immediatamente i primi cittadini a mal tollerare forme di controllo. Non è un caso che, subito dopo la riforma dell’elezione diretta, partì la crociata contro la figura del segretario comunale, figura alla quale la legge attribuisce anche, non solo, funzioni di controllo.

A metà anni ’90 del secolo scorso fu promosso un referendum per abolire i segretari, sventato dalle riforme Bassanini degli anni 1997-98, caratterizzate indovini da cosa, Titolare? Da una ancora maggiore e diffusissima abolizione dei controlli. I segretari comunali furono soggetti ad un pesantissimo spoils system e privati del “parere di legittimità”; a seguire vennero eliminati i Comitati Regionali di Controllo.

All’improvviso, qualsiasi strumento di controllo, sia preventivo, sia successivo, sui provvedimenti degli enti locali venne a mancare.

IL “PARERIFICIO” DELLA CORTE DEI CONTI E I SUOI GUASTI

Ma, un decennio dopo, a compensare, quasi, questo fenomeno, accentuato ulteriormente dalla riforma del Titolo V della Costituzione, intervenne la legge 131/2003, che istituì il “controllo collaborativo” della Corte dei conti. Uno strumento che ha trasformato le sezioni regionali di controllo della magistratura contabile in una sorta di “parerificio”, poiché chiamate ad esprimere pareri ad ogni piè sospinto, ma mai su provvedimenti concreti, bensì su questioni generali e astratte.

Manca, quindi, ogni efficacia propria di un controllo, cioè evitare la produzione di una decisione erronea e dannosa o correggerla, ma, anche, manca la possibilità di ricorrere avverso decisioni ritenute non condivisibili: i pareri della Corte dei conti, essendo esercizio non di una funzione amministrativa di controllo ma espressione del potere di giurisdizione, non si prestano ad essere oggetto di ricorsi amministrativi.

Si è quindi verificato un doppio errore: da un lato, l’ingessamento gestionale, condizionato da pareri generali ed astratti, lontani dalla concretezza ma spesso capaci di creare vincoli operativi all’azione amministrativa, senza strumenti per poterli rivedere; dall’altro, lo snaturamento dei controlli, che da fase del procedimento amministrativo, divengono, invece, esercizio di giurisdizione.

È così che scatta la “cogestione”. La Corte dei conti può essere chiamata in causa come organo che “co-gestisce” esclusivamente perché coinvolta, impropriamente, da una serie di leggi che si rifanno all’impianto della 131/2003, a svolgere controlli che dovrebbero avere natura amministrativa, trasformati invece in funzione giurisdizionale. Per altro, suscitando nei meno esperti la confusione estrema tra la funzione di controllo concomitante o collaborativo della magistratura contabile, con la funzione di controllo “successivo” o “sulla gestione”, posto in essere sulle gestioni già chiuse e concluse, allo scopo di verificare ex post la corretta allocazione delle spese ed attivare, se del caso, le azioni di responsabilità per danno erariale.

 




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