lunedì 19 aprile 2021 - Andrea Campiotti

La Corte costituzionale dichiara illegittimo l’ergastolo ostativo

Il Parlamento ha tempo fino a maggio 2022 per approntare una nuova disciplina, altrimenti la norma verrà abrogata

In un recente comunicato stampa la Corte costituzionale ha reso noto di voler dichiarare incostituzionale con un’ordinanza – che sarà pubblicata nelle prossime settimane – il c.d. “ergastolo ostativo”, disciplinato dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, per ritenuto contrasto con gli articoli 3 (principio di uguaglianza) e 27 (principio di colpevolezza) della Costituzione e con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divieto di trattamenti inumani o degradanti). Il termine “ergastolo ostativo” non compare in nessuna norma; si tratta di un’espressione utilizzata in dottrina per indicare i casi in cui la pena della detenzione è perpetua e irriducibile, coincidendo con l’intera vita del condannato (a tal proposito si usa anche l’espressione “pena fine mai”). La particolare asprezza del trattamento sanzionatorio si giustifica sulla base della gravità dei reati commessi (mafia e terrorismo), per i quali non operano i benefici penitenziari e le misure alternative alla detenzione previsti invece per l’ergastolo comune (come, ad esempio, la possibilità di accedere alla libertà condizionale dopo aver scontato 26 anni di reclusione), se non attraverso la collaborazione con gli organi di giustizia. Tale collaborazione, che costituisce pertanto una condicio sine qua non, imprescindibile per l’accesso ai “benefici penitenziari”, non deve essere solo verbale ma consistere nell’effettiva dissociazione, ossia nella rottura netta dei propri rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza.

La decisione della Corte costituzionale fa seguito a due importanti pronunce: una della Corte europea dei diritti dell’uomo che nel 2019 ha invitato l’Italia a rivedere la normativa, ritenendo l’art. 4 bis. ord. pen. in conflitto con l’art. 3 CEDU; l’altra della Corte costituzionale che nello stesso anno ha definito parzialmente incostituzionale la norma in questione nella parte in cui non consente ai condannati all’ergastolo ostativo di potersi avvalere dei permessi premio, quando esistano elementi per escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o il pericolo del loro ripristino. Nel comunicato stampa la Corte costituzionale, rilevando che l’accoglimento immediato della questione di legittimità “rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”, ha stabilito di rinviare la trattazione della questione al prossimo anno, precisamente a maggio 2022, invitando il Parlamento a provvedere entro tale data alle modifiche necessarie con una legge che tenga conto sia della “peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie” sia della “necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia”.

Occorre anzitutto sottolineare che la decisione della Corte costituzionale giunge in un periodo nel quale le questioni urgenti sulle quali il Parlamento è chiamato a rispondere sono numerose. Il tema oggetto dell’ordinanza è a dir poco spinoso e il tempo riconosciuto al Parlamento per approvare una legge che renda l’istituto dell’ergastolo ostativo conforme ai principi sopra richiamati appare insufficiente a garantire un’approfondita discussione da parte delle commissioni parlamentari e un proficuo dialogo tra le forze politiche. Il risultato potrebbe essere una legge frutto di un iter legislativo frettoloso che potrebbe indebolire, se non addirittura, elidere il ruolo di una norma che è centrale nella lotta alla criminalità organizzata di tipo mafioso. La Corte osserva che l’istituto dell’ergastolo ostativo, “facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione”. Tale affermazione reca con sé il rischio di porre sullo stesso piano coloro che scelgono di collaborare con gli organi di giustizia, con tutte le conseguenze che possono derivarne in termini di possibili ritorsioni sulla propria vita o su quella dei prossimi congiunti, e quanti, al contrario, decidono di non spezzare i propri rapporti con l’organizzazione mafiosa di appartenenza. Inoltre, dal momento che l’art. 27 co. 3, Cost. stabilisce che la pena deve “tendere alla rieducazione del condannato”, si potrebbe obiettare che la pubblica dissociazione e la collaborazione con gli organi di giustizia, richiesta dall’art. 4 bis, potrebbero costituire di per sé un’inequivocabile prova del raggiunto percorso rieducativo da parte del condannato. La decisione della Corte appare poi criticabile sotto un altro profilo: essa sembra difettare di un’adeguata considerazione del particolare periodo storico nel quale fu approvata la norma in questione – nelle settimane immediatamente successive alla strage di Capaci (1992) – e del prezioso contributo rappresentato dai c.d. “pentiti”. L’art. 4 bis si inserisce in un quadro normativo che costituisce il frutto di decenni di lotta alla criminalità organizzata, specialmente quella di tipo mafioso, e al terrorismo, costata la vita a numerosi magistrati, membri delle forze dell’ordine e cittadini comuni, i cui sacrifici rischiano ora di essere vanificati.




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