giovedì 14 luglio 2022 - UAAR - A ragion veduta

L’ipocrisia del velo: intervista a Giuliana Sgrena

Da anni la giornalista e scrittrice Giuliana Sgrena si occupa del velo islamico e del modo in cui veicola l’identitarismo religioso, anche nel nostro paese. Per l’uscita del suo nuovo libro “Donne ingannate. Il velo come religione, identità e libertà”, l’abbiamo intervistata sul numero 3/22 di Nessun Dogma.

 

Per anni cronista di guerra nei teatri di Medio Oriente e Africa, storica inviata del quotidiano comunista il manifesto, Giuliana Sgrena è una coraggiosa voce di sinistra da sempre critica verso il fondamentalismo, ma anche delle politiche degli Usa per “esportare” la democrazia, che hanno contribuito a crisi e divisioni. Emblematico il suo (doppiamente) tragico sequestro, avvenuto in Iraq nel 2005. Rapita da miliziani iracheni, viene liberata con la mediazione dei servizi segreti italiani. Ma l’automobile che la porta in salvo è investita da centinaia di colpi sparati da soldati statunitensi, che uccideranno Nicola Calipari, funzionario del Sismi.

Da giornalista ha continuato a documentare, e a impegnarsi politicamente. Ha raccontato le storie e le sofferenze di tante donne, oppresse da retaggi sociali e religiosi e colpite dai conflitti. Ha indagato la condizione femminile in paesi diversissimi dal nostro, in particolare nel mondo islamico. Testimonianze, vivide e sentite, che offrono uno sguardo originale e tagliente sull’intricato ginepraio arabo-islamico. E sul nostro.

È appena uscito il suo libro Donne ingannate. Il velo come religione, identità e libertà. Da anni si occupa del velo islamico e del modo in cui veicola l’identitarismo religioso. Come nasce questa sua ultima fatica e quali nuove riflessioni ci propone?

Questo è il mio terzo libro sul velo (dopo La schiavitù del velo e Il prezzo del velo). Il mio obiettivo è quello di mettere in evidenza l’ipocrisia del velo, analizzando l’uso dell’hijab dal punto di vista religioso, identitario, della tradizione e della libertà. L’urgenza di questo libro mi è stata imposta da due constatazioni: la prima è rappresentata dagli effetti del processo di reislamizzazione che ha investito molti paesi arabo-musulmani imponendo una interpretazione dell’islam fondamentalista che ha visto ovunque come vittime privilegiate le donne.

Donne ingannate da una falsa rappresentazione: nel Corano non è previsto l’obbligo del velo. Analizzo questa regressione riportando l’evoluzione della pratica religiosa in paesi come l’Algeria, la Bosnia… In altri paesi l’arrivo al potere di fondamentalismi religiosi – in Iran nel 1979 o in Afghanistan dal 1989 – ha aperto la strada alla reislamizzazione che si è manifestata anche e soprattutto con l’umiliazione delle donne costrette a coprirsi con il chador o il burqa. Imposizioni che le coraggiose lotte delle donne non sono ancora riuscite a scalfire.

L’altra considerazione invece riguarda l’occidente, dove è diventato più difficile affermare la libertà di non portare il velo rispetto a quella di portarlo. Con l’eccezione della Francia, l’hijab è stato sdoganato ovunque. Addirittura il Consiglio d’Europa aveva lanciato la campagna «La libertà è nell’hijab», senza provocare nessuna reazione particolare nei vari paesi.

È stata ritirata per l’intervento di Parigi. Ma anche le campagne che sono seguite hanno sempre al loro interno una visione della donna velata. Questo anche per le pressioni esercitate dalle organizzazioni dei Fratelli musulmani che oltre a fare proseliti tra i giovani, soprattutto studenti di origine musulmana, sono molto attive nelle istituzioni europee.

Nell’apologetica islamica ma anche in certi discorsi della sinistra antirazzista si celebra il velo come scelta di emancipazione e di una cultura “altra” rispetto all’occidente capitalista. Già aveva suonato l’allarme nel 2008, con Il prezzo del velo. La guerra dell’islam contro le donne. Come possiamo contrastare questa seducente narrazione?

Quella di considerare il “diverso” da noi più rappresentativo di realtà del sud del mondo, o anche semplicemente dell’altra sponda del Mediterraneo, è un retaggio di un vecchio e superato terzomondismo. Inoltre l’islam globale, l’ideologia che fa del velo la testimonianza dell’appartenenza a una grande comunità di credenti che va oltre i confini degli stati, ha rappresentato e rappresenta una risposta forte alla globalizzazione.

Non a caso l’islam globale ha affascinato anche i movimenti no global occidentali che speravano di avere negli islamisti degli alleati. Risultato: gli adepti dell’islam globale hanno séguito anche in occidente mentre i movimenti no global sono scomparsi. Mi è capitato di incontrare a Londra ragazze militanti nel movimento no war supervelate, di cui i pacifisti erano orgogliosi.

Per queste giovani, le cui famiglie provenivano da paesi musulmani, la religione era più importante della politica e della loro militanza contro la guerra. Nessuna delle loro madri portava il velo e loro non si sentivano discriminate in Gran Bretagna, ma avevano fatto una scelta ideologica approfittando della libertà che era loro garantita, mi avevano detto.

Le primavere arabe hanno dato la speranza di una democratizzazione dal basso. Le donne hanno giocato un ruolo importante. Ma quella che ha definito una «primavera laica» si è tradotta nel «voto islamista». Quali possibilità ci sono oggi per una nuova spinta laica nel mondo musulmano e quali categorie sono un’avanguardia?

Tutte le donne che ho incontrato durante le primavere arabe avevano un obiettivo comune: la parità di genere. Ed erano coscienti che il cammino sarebbe stato lungo: la rivoluzione è femmina o non è. Il cammino si presenta forse ancora più lungo del previsto. Infatti in nome della democrazia hanno trovato legittimazione i partiti religiosi che non credono nella democrazia ma la usano per arrivare al potere.

E mentre i partiti laici, le associazioni di donne e gli attivisti per i diritti umani sono spesso divisi, poco organizzati, con scarsi mezzi finanziari, i Fratelli musulmani appartengono a una rete internazionale in cui godono di supporto politico, finanziario e mediatico. Arrivati al potere in paesi come l’Egitto, ma anche in Tunisia, hanno iniziato ad imporre le loro leggi discriminatorie soprattutto nei confronti delle donne.

La reazione in Egitto è stata una sollevazione popolare che ha permesso ai militari di tornare al potere, con tutte le conseguenze che comporta un potere autoritario e antidemocratico. In Tunisia il cammino è stato più tortuoso, i colpi di mano di Ennahda (il partito islamista) sono stati di volta in volta contrastati dalle forze laiche e democratiche, ma la crisi economica e lo stallo politico ha portato al potere un presidente che pur non essendo un militare si è imposto come un padre padrone dello stato. Difficile prevedere una via d’uscita a breve termine. Altri paesi sono in guerra dal 2011 e la situazione è ancora più drammatica.

La nostra rivista ha dato spazio a voci diverse ma convergenti che criticano l’integralismo. Come l’iraniana Masih Alinejad, esule e critica del regime degli ayatollah, e la francese Caroline Fourest, femminista che combatte le derive identitarie. È realistica una sorta di “internazionale” femminista per la libertà dalla schiavitù del velo, oltre gli steccati che rischia di alzare l’intersezionalismo?

Masih Alinejad ha una forte personalità e la sua venuta in Italia per la presentazione del documentario Be My Voice ha avuto un grande impatto. Tuttavia le femministe che avevano applaudito alla sua azione contro l’imposizione del velo in Iran, quando si trovano di fronte al tema del velo tendono ad accreditare l’idea che portarlo possa essere una libera scelta e che possa essere un mezzo per l’emancipazione delle donne musulmane.

Oggi in Italia e in occidente è più difficile affermare il diritto di non portare il velo rispetto a quello di portarlo, lo si è visto anche con l’istituzione del World Hijab Day, adottato anche dalle istituzioni in alcuni paesi come la Gran Bretagna. La risposta con il No Hijab Day non è riuscita a contrastare la campagna per l’uso dell’hijab. Per questo ritengo difficile la creazione di una rete internazionale femminista laica contro l’oppressione della donna.

A sinistra – quella che viene definita “radicale” – sembra ormai difficile portare avanti un discorso come il suo. Il pericolo è venire accusati di islamofobia, antifemminismo e razzismo. Perché persiste nel campo progressista un diffuso tabù che impedisce di criticare le derive dell’identitarismo e del comunitarismo, quando si parla di minoranze?

Il relativismo culturale è molto diffuso a sinistra dove qualsiasi critica all’oppressione della donna fatta in nome di una religione o di una cultura diversa o di una identità viene considerata un’offesa, un affronto. Io credo, come dicono sempre le mie amiche algerine ma non solo, che i diritti delle donne sono universali quindi non si possono fare differenze, i diritti che rivendichiamo per noi sono anche quelli per cui lottano le donne ad Algeri o Kabul. Non riconoscere questa universalità dei diritti è razzismo.

Le religioni monoteiste mettono da parte le differenze quando si tratta di opprimere il genere femminile, come aveva spiegato in Dio odia le donne. In un contesto che sembra secolarizzato come il nostro, al revanscismo cattolico si affiancano nuovi integralismi. Quanto pesa ancora il retaggio confessionale contro le aspirazioni e le libertà delle donne?

In una società caratterizzata da una crisi di valori e ideali la religione diventa un rifugio in grado di offrire un senso di appartenenza, ma per esserlo deve estremizzare le interpretazioni: sono i fondamentalismi a essere più attrattivi. Abbiamo assistito negli Stati Uniti al celebrare la castità delle figlie da parte dei padri, quindi a una affermazione del controllo del corpo della donna da parte dei maschi all’interno della famiglia.

Anche nell’ebraismo si assiste a una radicalizzazione soprattutto in Israele. Dell’islam abbiamo parlato. Tutte le religioni, soprattutto quelle monoteiste ma non solo, acuiscono le differenze ma convergono sull’oppressione della donna. Tutte sono d’accordo sul fatto che la donna è stata creata per l’uomo, quindi non ha scampo.

Intervista a Giuliana Sgrena

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