venerdì 21 agosto 2015 - Piero Tucceri

L’informazione e la disinformazione

Succede raramente che le notizie importanti siano diffuse dall’informazione di regime. Esse vanno ricercate altrove: si stima infatti che il sistema mediatico mondiale comunichi meno del 20% delle notizie che tutti dovremmo conoscere. Ne consegue il diffondersi di uno strisciante senso di rassegnazione in un contesto sistemico in rapida evoluzione. E, poiché siamo soverchiati da una pletora di condizionamenti, corriamo il rischio di assuefarci alle fuorvianti suggestioni scientemente imposteci, finendo con il sentirci sempre più confusi, non riuscendo a discernere l’effettiva qualità delle notizie veicolate attraverso ogni strumento disponibile. Capita pertanto che persino quegli avvenimenti che dovrebbero suscitare la nostra vibrata reazione appaiano a dir poco estemporanei e si dissolvano rapidamente. Quando sarebbe invece auspicabile che l’interesse per certe evenienze perdurasse e che qualcuno focalizzasse l’attenzione sull’esigenza di promuovere il doveroso rispetto delle persone. Sarebbe per questo opportuno apprezzare una maggior diligenza nel raccontare la verità dei fatti. Invece, prevale l’informazione correlata con le circostanze fortuite.

Non sottovalutando naturalmente il fatto che qualsiasi informazione non possa prescindere dal vissuto di chi la riporti. Ecco perché non esiste un modo asettico e neutrale di raccontare i fatti in relazione con la loro collocazione storica. Infatti, risulta a dir poco impossibile porsi esattamente fra la fonte dell’informazione e il relativo destinatario, essendo il mediatore portatore delle ragioni dell’una o dell’altra parte in causa. Costui dovrebbe rappresentare lo strumento capace di farsi carico dell’una o dell’altra posizione: dovrebbe essere colui capace di cogliere il senso del rispettivo dire. Ancor più, dovrebbe essere colui capace di tradurre: il che vuol dire che egli dovrebbe dimostrarsi capace di trasportare ogni parola da un codice all’altro. In definitiva, il mediatore dovrebbe essere colui capace di assumersi il rischio di ogni traduzione. Perché tradurre vuol dire andare all’essenziale per poter riferire adeguatamente il senso delle vicende.

Al contrario, il giornalismo nostrano, così approssimativo e casareccio, avrebbe bisogno di una sorta di redenzione. Perché quello dell’informazione è un diritto. Così come è un dovere quello di informarsi. Quando invece ricorre la negazione di entrambi, allora si parla di dittatura.




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