mercoledì 11 dicembre 2019 - Stranieriincampania

L’impegno ambientale con uno sguardo al sociale: la storia di Gizele dal Brasile

Gizele viene dal Brasile e vive in Italia da quasi quindici anni. La sua è una storia lunga, ricca di aneddoti che probabilmente non basterebbe un solo libro per raccoglierli. Tutto inizia in una favela di Rio de Janeiro, passando per la cosmopolita capitale della Catalogna, per poi giungere nel quartiere Vomero di Napoli. Il viaggio è quello di una ragazza poco più che ventenne che con audacia parte verso la scintillante Europa, affrontando con estrema determinazione un percorso lungo e complicato.

Oggi Gizele cresce a Napoli sua figlia, per essere indipendente fa la ballerina di Samba e contemporaneamente porta avanti l’idea di un progetto di produzione con materiali riciclati che coinvolgerebbe anche le persone che vivono in una condizione disagiata. Prima di arrivare a questo, Gizele ci ha raccontato di come è nato il suo impegno ambientale e delle serate passate a ripulire piazza Cavour, insieme ad un gruppo variegato di attivisti, cercando di stimolare le coscienze delle persone del quartiere. Un impegno ambientale con uno sguardo al sociale, frutto anche delle sue esperienze nei campi di accoglienza in Serbia e in Grecia. 

Da quanto tempo stai in Italia e come mai hai deciso di venire qui?

Sono in Italia da quindici anni, io penso sia stato il destino a portarmi qui. Quando ero piccola dicevo sempre ai miei parenti che un giorno sarei venuta qui e mia madre mi diceva che io con la testa già stavo in Italia. Poi le dinamiche che mi hanno portata qui sono purtroppo le stesse di ogni ragazza che voglia arrivare in Europa senza avere le spalle coperte. Sono poche le strade che puoi percorrere per arrivare e non sono belle e tanto meno facili. 

Che lavoro facevi all’inizio? 

Arrivando qui il mio primo lavoro è stato in bar a Giugliano in Campania, in cui subivo anche atti di razzismo, però volevo lavorare. Poi mi presentarono ad un’agenzia che si occupa di intrattenimento, mi dissero che avevano due ballerine di samba che non erano di Rio, e io che venivo da una favela con un padre che suonava la samba decisi di accettare. Lì ho iniziato la mia carriera artistica. Io non sono una ballerina, ma faccio la ballerina e oggi sono anche un’insegnante. Finalmente lavoravo, guadagnavo bene e riuscivo a mantenermi. 

Poi dopo hai incontrato il padre di tua figlia?

Poi fortunatamente ho conosciuto mio marito. Un avvocato, una persona perbene che si è presa cura di me. Da lì tutto è stato velocissimo, dopo venti giorni mi ha chiesto di sposarlo, dopo un mese ero incinta. Purtroppo non abbiamo superato la crisi del settimo anno, ma è diventato il mio miglior amico qui, siamo in ottimi rapporti. Allora tutto sommato dico che le cose non sono andate così male, lui è il padre che sognavo per me e che mia figlia ha la fortuna di avere. Lui mi ha dato fiducia, allora è cambiato qualcosa in me. Cominciai a pensare cosa potevo fare, ma non sapevo su cosa concentrarmi.

Hai avuto anche un’esperienza come volontaria nei centri di accoglienza?

Quando sono tornata a Rio nel 2010 aiutavo i senzatetto, così è iniziato il mio impegno. Poi sono stata nei campi profughi per i rifugiati siriani. Per molti era inconcepibile che lasciavo la comodità di casa mia per partire. Certo non potevo salvare tutti i bambini siriani da sola, ma in quel momento lì capisci che loro venivano da un contesto diverso dal mio, che gli permette anche di capire quelle situazioni ma non di sentire. Perché per sentirle quelle realtà le devi vivere sulla tua pelle. Io già aiutavo inviando soldi per adozioni a distanza e con un’associazione molto famosa sono riuscita ad inviare un container di medicinali in Turchia per i profughi. Messi i soldi da parte cercavo un posto dove andare ad aiutare questi bambini, così trovai un campo profughi in Serbia. Non avevo nessuna organizzazione che mi supportasse sono andata da sola, ho cercato l’indirizzo su internet e mi sono presentata lì. 

Come è stata questa esperienza?

E’ stata una bella esperienza sicuramente. La prima volta, in Serbia, mi è servita per capire qual era la situazione e con chi avevo a che fare. Lì non riuscivano a capire, anche per una questione religiosa, perché una donna si avventurasse da sola in questa cosa. La seconda volta, in Grecia, sono stata sempre in un campo profughi, ma la situazione era diversa. Le persone in Serbia arrivavano stanche dopo lunghe camminate, ma quando arrivavano per mare vedevo i bambini ancora più scossi. La terza volta sono stata sempre in Grecia, ma mi occupavo degli sbarchi. Lì col freddo, quando sapevamo di qualcosa, ci mettevamo sugli scogli con una lanterna cercando di sentire le urla delle persone dal mare perché non riuscivamo a vedere niente, c’era il buio totale. Quando finalmente riuscivamo a vedere il gommone ci dividevamo in gruppi per cercare di capire dove sarebbe andato a finire e spesso finivano sugli scogli. In una settimana ho visto due bambini arrivati morti. Mi ricordo di aver aiutato la mamma ad uscire dagli scogli ma lei si girava e gridava “dov’è mio figlio”, io le dicevo di non preoccuparsi che stava bene, ma quando si è girata ha visto i medici che stavano facendo il massaggio cardiaco al bambino. Aveva due anni ed era morto asfissiato, probabilmente già sulla nave. Io avevo mia figlia piccola a casa e quando vedi una scena del genere la tua testa va in tilt. Non era la prima volta che vedevo gente morta, però da adulta lo realizzi in maniera diversa. Comunque sapevo di essere andata ad aiutare e non tornavo a casa traumatizzata.

Torniamo alla tua vita a Napoli: come nasce la tua idea di ripulire le piazze?

Ho cominciato con un progetto ai tempi dell’emergenza rifiuti. All’epoca portavo i pasti ai senzatetto e ho conosciuto un ex senza fissa dimora senegalese, Fadel, a cui raccontavo che mi sarebbe piaciuto mettere in piedi un progetto per prendermi cura della città. Lui disse che voleva darmi una mano e facemmo insieme una lista di posti in cui si poteva intervenire. All’epoca tutti questi gruppi che si attivano per pulire alcuni luoghi della città non c’erano, o meglio erano pochi, infatti ho fatto alcune cose con loro. 

Perché avete scelto piazza Cavour? 

Il mio amico senegalese mi disse che voleva iniziare da piazza Cavour, perché per un periodo era stato un senza fissa dimora e aveva vissuto anche lui là. Poi fortunatamente è riuscito a trovare una sistemazione e un lavoro grazie ad una delle volontarie che portavano i pasti. Lei si era resa conto che lui non era uno sbandato, ma solo una persona che si era lasciata andare travolto dai propri problemi. Così mi disse “voglio ricominciare da questo posto in cui la mia vita era quasi finita”. Pensavo fosse semplice: una spazzata, una pulizia e tutto a posto. Poi ci siamo accorti che non era così semplice, all’inizio abbiamo avuto problemi con gli abitanti della zona e in generale con le persone che frequentano la piazza durante la giornata. Prima di pulire dovevamo sensibilizzare la popolazione. 

Quindi siete partiti da un percorso di sensibilizzazione? 

Abbiamo visto che non bastava solo pulire, perché il giorno dopo trovavamo di nuovo tutto sporco. Io non ho mai chiesto a nessuno di aiutarci, ho comprato io i guanti, i sacchetti, le scope. Io vengo da una favela di Rio de Janeiro, penso di non poter trovare di peggio se non in alcuni angoli del mondo, ma non qui. Io ti parlo di mentalità, questo è il problema. Però dopo una settimana abbiamo già visto i risultati. I senza tetto si sono messi ad aiutare, quando ci vedevano arrivare da lontano si sentivano in imbarazzo perché poi erano anche loro a sporcare. Quindi, venivano a chiederci le cose per pulire insieme a noi. Poi in zona c’era un centro di accoglienza, i ragazzi spesso la sera si trattenevano in piazza e anche loro sono venuti a chiederci se potevano darci una mano. All’epoca c’era anche un gruppo di polacchi che si vedeva in piazza per bere una cosa insieme, ma lasciavano in giro lattine e bottiglie. Dopo un po’ di tempo che ci vedevano pulire, un giorno mi hanno detto “Uè Brasilià abbiamo portato le buste” per dimostrare che dopo avrebbero pulito tutto. Io questa cosa l’ho vissuta come positiva, alla fine potevano dirmi: ma chi sei tu, un’immigrata che viene a rompere quando noi già abbiamo i nostri guai?. Invece no. 

Hai mai avuto problemi?

Io non ho mai litigato con nessuno, gli unici che hanno opposto un po’ di resistenza all’inizio erano i napoletani che vivevano in zona. Una volta si sono radunati mentre stavo pulendo il parchetto allestito per i bambini insieme ai loro figli, sono venute da me a dirmi “ma tu che vuoi fare? vuoi insegnarci a vivere a casa nostra?”. All’improvviso, non so da dove, è uscito un uomo che non avevo mai visto prima e ha urlato loro in napoletano di lasciarmi in pace perché stavo lì solo per pulire. Non ho più rivisto quell’uomo, ma grazie a lui non mi hanno più detto niente. Anche gli scugnizzi all’inizio erano tremendi, buttavano tutto a terra mentre pulivamo. Poi ho pensato che io vengo da una favela, proviamo a parlare con loro la lingua dei “favellari”. Un giorno c’era un gruppetto di bambini di 10/11 anni con un atteggiamento da adulti arroganti, così ho deciso di affrontarli. Gli ho chiesto di alzare la spazzatura che stavano buttando in strada e c’è stato anche un momento di tensione. Dopo una decina di giorni ho trovato la banda di scugnizzi che mi aspettava con scope, buste e tutto il necessario per pulire la piazza. All’inizio mi dicevano che avevo perso la testa, che qua a Napoli la gente è così e io non potevo cambiare niente, invece io insistevo, cercavo di far capire loro che un cambiamento era possibile. Finché loro non mi hanno creduto. Ti dico questo perché ormai sono passati un po’ di anni, ma ho incontrato di recente uno di questi bambini, che adesso è un ragazzo, che mi ha riconosciuto e mi ha urlato dall’altro marciapiede “Brasilià tu non hai creduto in noi”. Questo perché ultimamente sono andata di meno per problemi personali. 

Quindi le maggiori resistenze le hai incontrate proprio da parte dei napoletani, perché secondo te?

Ti dico una cosa: è la stessa dinamica della favela. Quando ho sposato quest’uomo del Vomero gli facevo vedere le foto di quando ero piccola e gli dicevo “guarda questi erano miei amici di infanzia, ma questo è morto, questo pure, pure quest’altro”. Piano piano mi sono resa conto che erano tutti morti sparati e non erano arrivati neanche all’età di 18 anni. Il mio ex marito restava scioccato, così mi sono accorta che quello che per me era così normale, in realtà non lo era. Il problema è che quando tu nasci, cresci e vivi una realtà degradata, il degrado diventa normalità. Paradossalmente il degrado l’ho trovato più qui che in Brasile, certo in Brasile ci sono problemi molto più gravi, ma non parlo di fatti ma di mentalità. Lì vedevo più gente sparata, ma meno cumuli di spazzatura. Per esempio i trafficanti in Brasile, collaboravano con la gente della favela per pulire e poi avvisavano con tono quasi minaccioso chi sporcava. Dicevano che gli avrebbero fatto pulire tutta la favela. Però questa è la differenza che vedo tra la cosiddetta “gente di mezzo alla strada” qui e là. Qui capita che escono di casa tutti sistemati e tengono le loro case pulitissime, poi per strada non fanno caso al degrado che li circonda. E’ diverso dal Brasile dove il delinquente, che non può allontanarsi dalla favela, pensa che sia meglio uscire di casa e trovare i fiori piuttosto che la munnezza. In quelle zone lo Stato non arriva, e allora che fai, ti siedi e lasci tutto com’è? Questo nonostante sia un ambiente molto più povero. Io qui non ho mai visto la povertà che c’è in Brasile, neppure gli immigrati vivono quella condizione. Qua ho capito che la gente del posto aveva bisogno di qualcuno che credesse in loro, che gli facesse credere che qualcosa potesse cambiare. Dai migranti africani, ai senza tetto tutti hanno partecipato, nel loro piccolo si impegnavano a non sporcare. Tutti si sono aperti e hanno detto “voglio credere”.

Quindi in qualche modo si può dire che tu hai aiutato loro a crederci?

Tre anni fa andavo ogni sera e mi ricordo una scena bellissima. C’era una bambina di otto anni, stava lì per giocare mentre la mamma era seduta sulla panchina con un’amica. La mamma finita la sigaretta la spegne nel bicchierino da caffè e butta tutto per terra. Questa bambina va verso la mamma e le dice con accento napoletano: “Uè ma’ e niente di meno! Noi stiamo cercando di dare un po’ di dignità a questa piazza e sei proprio tu la zozza della situazione”. Io ho visto tutta la scena da lontano e non si può credere quanto il mio cuore si sia riempito di orgoglio quel giorno, perché il mio intento non era tanto pulire la piazza quanto risvegliare queste reazioni in chi la frequenta ogni giorno. Non era normale quella scena della madre che magari a casa tiene tutto pulito e per strada poi sporca. Chiaramente la mamma ha raccolto il bicchierino e lo ha buttato nel cestino. 

Qual è stato il tuo primo impegno civico? 

Quando ero incinta di mia figlia, oltre a continuare ad andare a tutte le manifestazioni, partecipavo anche a delle iniziative di pulizia in un parchetto del Vomero, dove c’erano due signori pensionati che volevano recuperare un luogo del comune abbandonato. All’inizio mio marito non voleva, poi la seconda volta è sceso lui insieme a me, la terza volta è sceso lui da solo. Quindi vedi, mancano gli esempi positivi, anche se non voglio dire che mancano perché ci sono dei gruppi che organizzano iniziative simili, io ho anche partecipato con altri e mi sono trovata bene, però hanno delle dinamiche strane. Quindi ho deciso di farlo da sola. 

Cosa vuoi fare oggi?

Io ho quasi quarant’anni e non posso fare solo la volontaria, né posso continuare a ballare tutta la vita. In giro vedo tutti questi immigrati fuori ai negozi che chiedono soldi, dare un euro a tutti perché non risolve la situazione. Allora ho pensato che più che i soldi, dovremmo dargli una prospettiva di vita. Da qui ho iniziato a pensare ad alcune iniziative che c’erano già in Brasile che si potevano fare qui e non capisco perché non lo fanno. Poi ho capito che è perché qui non c’è proprio la fame, c’è solo un consumismo sfrenato e manca l’idea del recupero. In Brasile esistono delle cooperative di raccoglitori di spazzatura, oggi se tu vai lì e butti per terra una lattina o anche in un cestino dell’indifferenziata, vedi che succedono proprio le mazzate per andarla a riprendere. Pensa che riescono a sostenere le famiglie con questo lavoro. Qui lo fanno i rom, ma recuperano solo quei materiali che hanno un valore economico alto. Allora ho pensato che dovevo scrivere un progetto che avesse a che fare con il recupero dei rifiuti. Cercando in rete ho trovato un progetto di costruzione di scope partendo dalle bottiglie di plastica. Così ho contattato questo tipo in Brasile che aveva fatto un video su internet, un genio che vive in mezzo alle terre sperdute. Lui addirittura diceva di dover andare a comprare le bottiglie vuote perché in Brasile non se ne trovano più. Allora ho cominciato a lanciarmi in questo progetto, ma mi dicevano che la legge vieta di raccogliere i rifiuti. La stessa storia in realtà valeva anche per quando pulivo da volontaria piazza Cavour, sapevo di non poter entrare nella fontana dei tritoni, ma sai quante volte sono entrata per pulire dalla schifezza che ci buttano dentro. A me nessuno mi aveva mai detto niente, anche i vigili che mi vedevano, onestamente sono state persone intelligenti capivano l’intenzione. Sono in contatto anche con un gruppo di ragazzi del Vomero che si stanno muovendo per creare un’associazione che lavori sulle tematiche ambientali e del riciclo dei materiali, io ci ho aggiunto la parte “sociale” che punti al recupero delle persone più deboli. 

Quindi tu vorresti produrre questi oggetti come le scope per poi farne cosa?

Vorrei sicuramente venderle. Una volta ho fatto dei vasi con materiali riciclati e pensavo di venderle per strada, poi ho trovato un negozio qui al Vomero che mi ha proposto di metterle in vetrina. Mi ha anche chiesto se potevo realizzare una linea di gioielli fatta con materiali riciclati. Questo per dimostrare che se io pensassi solo a me probabilmente potrei vivere facendo queste cose, ma così rientro solo io e invece voglio coinvolgere altre persone perché c’è chi ha veramente bisogno. Per questo ho iniziato a pensare alla scopa, perché può essere realizzata anche da chi non ha il dono dell’arte. Potrei creare dei posti di lavoro e magari il Comune ripulisce le strade con le scope realizzate da noi. 

Hai più rivisto le persone che ti davano una mano a Piazza Cavour? 

Qualche settimana fa sono ripassata per la piazza e ho incontrato tutto il gruppo di scugnizzi, adesso ragazzi, che mi davano una mano. Gli ho spiegato perché non stavo più andando a pulire, ho detto loro che io non ho abbandonato quell’idea. Loro all’inizio mi dicevano “Giselle lascia stare qua non funziona niente”. E’ ricominciata quella idea del lascia perdere e del lasciarsi andare. Anche alcuni napoletani mi hanno detto di fargli sapere quando voglio riprendere che loro sono lì, ma non mi promettono nulla. Questo è già un inizio, potevano anche dirmi di lasciar perdere invece hanno lasciato una porta aperta. Lo vedo che hanno voglia di credere che un mondo diverso sia possibile, ma hanno bisogno di un traino, di qualcuno che ci crede più di loro. Perché rientri in quel mondo dove è normale quello che vedi e dove vivi. E’ necessaria un’educazione civica e al rispetto dell’ambiente che parta dalle scuole.

Hai mai cercato un appoggio dalle istituzioni o di qualche associazione?

Varie volte, sia del Comune che delle Municipalità. Una volta volevo proporre anche questa iniziativa per i carcerati, ho trovato questo settantenne che non mi ascoltava neanche e mi disse che se io partivo con questo progetto mi avrebbe fatto arrestare perché io la spazzatura non la potevo neanche toccare. Lo so che lui ha ragione, ma se tu mi arrivi con una bandiera delle persone più deboli e poi ti affidi solo al sistema che non te lo permette stai perdendo tempo. Io lo so che il sistema non me lo fa fare, perciò lo propongo alle istituzioni proprio perché cambino. Alla fine mi hanno dato un appuntamento e mi volevano mettere in una cooperativa per lavorare. Gli ho spiegato che io non cercavo un posto di lavoro, ero andata per essere aiutata nel mio progetto, in cui lavoro io ed altre persone. Loro mi hanno risposto: “Eh tu vuoi pensare a te e pure agli altri, continua così e vedrai che non vai da nessuna parte”. 

Hai mai pensato di accettare?

Sono tornata a casa e sono stata a pensare tutta la settimana chiamo o non chiamo, poi alla fine non ho chiamato. Ho pensato che non volevo scendere a compromessi con una persona con cui non volevo avere a che fare. Magari ha ragione lui, poi parlavo con i miei amici che vivono in altre parti d’Europa e mi dicono che questi progetti ci sono e sono accolti a braccia aperte dalle istituzioni. Mi dicono non so se hai sbagliato Paese, ma sicuro hai sbagliato città. Ma sai una cosa: io non ho un’altra opportunità di andarmene, già sono andata via una volta, dal mio paese a Rio de Janeiro. Ormai sono qua e ho anche mia figlia, non posso più pensare solo a me. Mi resta solo rimanere qua e combattere. Quando mi lamento la risposta classica è “perché non te ne torni al tuo paese?” ormai io rispondo “no, io non me ne vado. Voglio restare qui e combattere gli idioti come te che mi danno questa risposta”.

Adesso a che punto sei con il tuo progetto?

A fine giugno a furia di pensare a questa cosa ho avuto un esaurimento nervoso, per cui mi sono dovuta dare una calmata. Ma non mi sono fermata. Voglio capire meglio come agire, non mi va di perdere tempo. Pulisco e poi gli altri risporcano voglio essere più efficace. Voglio dare una speranza anche ai più deboli, anche pagandolii di tasca mia all’inizio. Non parlo solo di immigrati, parlo dei deboli, degli ultimi. Anche le mamme napoletane che stanno in casa e non possono lavorare perché magari devono stare con i figli piccoli, potrebbero darmi una mano e magari guadagnare qualcosina stando a casa. C’è bisogno di persone con più prospettive che riescano a guardare oltre l’orizzonte. Questo permette anche di farsi forza a vicenda, ci si sostiene nei giorni di difficoltà. Non ho altra scelta per iniziare, ma sono convinta che è quello che voglio fare. Voglio stare a Napoli perché è la città in ho scelto di vivere, in cui è nata mia figlia e in cui lei può stare con il padre. Ma mi chiedo che devo fare: devo davvero solo stare a guardare quello che succede?

Come ultima cosa, parlaci della tua esperienza a Napoli, cosa ti piace e cosa non ti piace di questa città?

Il caffè e la pizza non mi piacciono, la genovese mi piace assai, ma questo non lo scrivete (ride). Scherzi a parte, io dico che Napoli mi sembra una favela medioevale grande, la stessa cosa la dicono gli amici che mi vengono a trovare dal Brasile. Magari perché vedono quello sul motorino che fa quello che vuole, la signora che urla dal balcone, poi vengono al Vomero ed è la parte della favela buona quella più esterna. Forse è anche per questo che riesco a muovermi bene nella città e a dialogare con le persone di qualunque ceto sociale. 

C’è un gruppo musicale in città, si chiama Galera de Rua, che organizza la samba per strada, qualche settimana fa si è esibita alla Sanità. C’erano 800 persone mi sembrava di stare a Rio, anche se di brasiliani eravamo in tre, il resto tutti napoletani e turisti. Eppure tutti suonavano e cantavano in un portoghese perfetto. L’atmosfera era la stessa, alla fine ho ringraziato tutti perché mi sono sentita in Brasile e solo qui questo è possibile. In quale città d’Europa puoi fare questa cosa, riuscire a portare questa parte di cultura qua e vedere che la gente è interessata a conoscere, è pronta a capire. Quando fanno queste serate veramente vedi Rio qui. Di Napoli mi piace la sua bellissima storia e questa atmosfera che si respira. E’ una città fatta di persone che hanno una forza particolare dentro, pronte a rimboccarsi le maniche, piene di un’energia particolare. E’ una città anarchica per questo mi sento a casa mia. Uno associa Napoli al cibo o al caffè ma non è solo questo! 




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