venerdì 29 giugno 2012 - Francesco Raiola

L’esordio lungo di Tommaso Giagni, in bilico tra la Roma bene e quella di borgata

Tra la Roma di Quaresima e quella delle Rovine, il confine che le divide potrebbe essere enorme o forse potrebbe essere più sottile di quello che ci si possa aspettare. Uguali, ad esempio, nel farti sentire un estraneo, nell'essere nel mezzo, nato nelle Rovine ma con metà sangue nelle vene che batte in periferia.

Tommaso Giagni è un giovane scrittore romano (non il classico "giovane quarantenne", ma giovane ventisettenne), autore di diversi racconti e alla sua prima opera lunga, "L'estraneo", appunto, pubblicata da Einaudi e uscita da qualche settimana. Poche settimane che sono bastate per accostarlo a nomi importanti quali Walter Siti e Pier Paolo Pasolini, e forse a guardare quello che è questo libro, era inevitabile. C'è la periferia romana, la borgata, c'è il romano, c'è il ragazzo di vita, c'è la borghesia disegnata in maniera sarcastica e ci sono atmosfere che rimandano senza dubbio a due scrittori che Giagni in qualche intervista ha indicato come tra i suoi preferiti e almeno da quello in vita, ovvero Siti, viene anche ricambiato.
 
Il protagonista del romanzo è il figlio di un portinaio che viene dalla periferia e che dalla periferia è fuggito per lavorare nella Roma bene. Ha due figli che ha cresciuto cercando di dargli quello che reputava il meglio - e il meglio era soprattutto tenerli lontani dalla sua prima vita. Ma questo figlio la borgata la sente sua, a differenza della Roma delle Rovine, borghese e finta. È la Quaresima il posto in cui vuole vivere e si trasferirà ed è lì che si immergerà in un posto fatto di dialetto, quello che Giagni un po' prende a prestito e un po' inventa mescolandolo nel libro - non solo nei dialoghi tra i personaggi ma anche nella narrazione - palestre e palestrati fascisti, in cui non riesce a fare amicizia se non con un sedicente poliziotto che si scoprirà matto e una quasi amicizia col suo coinquilino, un gigolò in declino.
 
Una vita senza alcuna certezza, con quella dell'Università che è più un pretesto che si infrangerà contro la malattia, senza amore, anzi tra due quasi-amori, quello con Alba che però gli preferisce l'intellettuale dandy e Marianna, una borghese che ha deciso di darsi completamente al coatto trovando man mano l'odiata borghesia in qualsiasi cosa. Una vita in bilico, precaria e una città che alla fine non riesce in nessun modo a far sua. Se il padre del protagonista è in conflitto con le scelte del figlio – e l'altra figura che lontanamente poteva rappresentare una figura paterna, ovvero La Guardia, come detto si rivela un bluff – ed è quasi assente, non si può dire diversamente dell'unica figura materna che dovrebbe caratterizzare la sua vita, ovvero proprio Roma. Una madre che lo respinge in tutte le sue declinazioni, che non lo accetta e lo costringe all'umiliazione e alla peggiore via d'uscita che si possa immaginare. Un personaggio che, come scritto da Walter Siti, rappresenta bene l'inetto novecentesco...
 
Giagni gioca con la lingua e con la figura dell'estraneo, riuscendo a tirare fuori un esordio interessante senza il timore reverenziale verso i padri, anzi, riuscendo a citarli rimanendo se stesso e trovando una storia e una lingua tutta sua.
“Non esiste un meglio e un peggio tra le due sensazioni, perché la lezione è la stessa: né una città, né l'altra mi assimila, ed entrambe anzi mi rigettano come un corpo estraneo”
Abbiamo fatto qualche domanda all'autore:

Come nasce la storia del libro? Insomma il rischio - che s'è rivelato poi reale - dei “paragoni alti” non t'ha messo un po' di timore?

Timore, no. I paragoni, azzeccati o meno, ci sta che vengano fatti, o comunque te li aspetti. Quando uno scrive, secondo me non deve subirli tanto da paralizzarsi.

Io volevo scrivere un romanzo sull’identità, sul rapporto tra centro e periferia – nel senso più ampio possibile – e sull’appartenenza. Sono temi pesanti, e mi ci sono approcciato con rispetto, mi sono confrontato con la letteratura che ne aveva trattato, e poi ho preso un bel respiro e li ho affrontati a modo mio.

Siti e Pasolini sono due scrittori ai quali sei stato paragonato e ai quali rimandi spesso (basti pensare anche solo alle due frasi in esergo che introducono la prima e la quarta parte). Quanto ti pesa il paragone che viene fatto e che sarà fatto parlando di questo libro? E in che modo li hai trasposti nella tua narrazione?

È normale che gli autori che ami ti segnino, e sei felice di omaggiarli con un esergo. Poi però scrivi un romanzo in cui tiri fuori il tuo sguardo. Pasolini e Siti sono entrati nel mio libro in modo diverso. Il primo come riferimento legato quasi solo all’approccio; d’altra parte, racconto di un mondo marginale che è – nel tempo e nello spazio – del tutto diverso da quello che raccontò lui. Siti c’entra soprattutto per quanto riguarda le ambientazioni e certe soluzioni di scrittura, più che sul piano strettamente tematico.

Che tipo di lavoro hai fatto sulla lingua. Non c'era il rischio della “macchietta” che si rischiava nella trasposizione di alcuni personaggi? E come mai la scelta di questo romano di Quaresima che dai dialoghi trasmigra ogni tanto a “sporcare” l'italiano della narrazione?

Ho affidato la narrazione a una prima persona – il protagonista – che per la sua storia socioculturalmente mista mi dava la possibilità di spaziare a tutto campo. Ne è uscito fuori un registro abbastanza alto, che a tratti si alza ulteriormente e a tratti precipita verso il basso, in un cortocircuito che vuole rendere la confusione e la complessità interiore del personaggio.

Tutto intorno, nell’ambientazione periferica che nel libro è prevalente, ho inserito una lingua sporca che altro non è che il “romanaccio” che si parla oggi in borgata, lontano dal dialetto romanesco che ancora resisteva nella Roma pasoliniana. In verità sul rischio “macchietta” stavo tranquillo, probabilmente mi rassicurava la conoscenza del parlato che volevo restituire.

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L’Estraneo
Copertina

In quale Roma ti senti più a tuo agio, quella di Quaresima o quella delle Rovine?

Le ho sempre frequentate entrambe, ma in nessuna mi sento pienamente a mio agio. La Roma bene (“delle Rovine”) mi fa rabbia e mi respinge, perché la conosco meglio e so quanto sia ripiegata su sé stessa, incapace di uscire dall’autoreferenzialità. Le periferie (la “Roma di Quaresima”) mi affascinano molto di più, anche se là passo più facilmente per intruso.

Il fascismo è ben presente nella Roma di periferia. Insomma, è una presenza da cui non si può prescindere?

È un fascismo culturale, più che politico. Nasce dall’atteggiamento suicida con cui la Sinistra ha abbandonato le periferie e dalla dismissione d’un sistema collaudato quale la combinazione oratori–sezioni partitiche. La maggior parte dei quartieri marginali, oggi sono abitati da una piccola borghesia incapace di trasformare in politica le proprie sensibilità all’intolleranza e al populismo.

A un certo punto si organizza un viaggio per rendere onore a Liboni. Come mai proprio lui?

Perché “il Lupo” rappresenta l’opposizione allo Stato senza evolvere in simbolo strettamente politico. Le periferie, private di obiettivi e avversari politici, oggi sono rivoltate contro lo Stato (che non dà servizi, sgombera le case occupate, viene percepito come egoista e lontano). Liboni è il bandito di strada, il cane sciolto, il fuggitivo che ha ingaggiato una battaglia personale con le forze dell’ordine e che dalle forze dell’ordine è stato ucciso su uno sfondo scenograficamente potente come il Circo Massimo... Per molti diventa una specie di eroe romantico, e per rendersene conto basta già vedere sui muri la quantità di scritte che lo osannano.

Questo è il tuo primo romanzo. Come è stato il passaggio dalla forma racconto a quella romanzo?

In partenza era ciò che mi preoccupava di più: non tanto la lingua o i personaggi o l’ambientazione, ma la struttura; avevo proprio paura di non saperla tenere. Prima di questo non avevo mai provato la forma romanzo, neanche abbozzando qualcosa giusto così per fare pratica. Poi in realtà è stato più facile del previsto, e sicuramente mi ha aiutato la scelta di un’assoluta linearità: la trama che si sviluppa cronologicamente lungo sei mesi, senza rotture di alcun tipo nella narrazione, attraverso il racconto di una prima persona.

Qual è il personaggio al quale sei maggiormente affezionato (protagonista a parte), col quale c'è maggiore empatia (se ce n'è uno in particolare)?

Da lettore, i comprimari di solito mi piacciono più dei protagonisti, mi sembrano sempre più interessanti. Ne “L’estraneo”, il personaggio più riuscito secondo me è Andrea, il coinquilino del protagonista: quello che ha il sogno più “di borgata”, ma anche quello più proiettato fuori dalla periferia.

Poi, a metterla sull’affetto e sull’empatia, probabilmente Alba, la ragazza che in apertura di romanzo ha lasciato l’Estraneo e che nel corso della narrazione diventa una specie di evocazione.

Ti ritrovi nell'idea dell'inetto novecentesco con cui Siti parla del tuo protagonista?

Assolutamente sì, è un discendente diretto dell’inetto novecentesco. Un ventenne senza talenti, senza qualità, molto sensibile e quindi molto ferito dai suoi insuccessi e dalla chiusura che incontra nel mondo. Uno che ha bisogno di incitarsi all’azione (anche da qui la sua passione per il movimento futurista) perché sa di tendere all’immobilità di un Bartleby o un Bernardo Soares.




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