L’esordio lungo di Tommaso Giagni, in bilico tra la Roma bene e quella di borgata
Tra la Roma di Quaresima e quella delle Rovine, il confine che le divide potrebbe essere enorme o forse potrebbe essere più sottile di quello che ci si possa aspettare. Uguali, ad esempio, nel farti sentire un estraneo, nell'essere nel mezzo, nato nelle Rovine ma con metà sangue nelle vene che batte in periferia.
“Non esiste un meglio e un peggio tra le due sensazioni, perché la lezione è la stessa: né una città, né l'altra mi assimila, ed entrambe anzi mi rigettano come un corpo estraneo”
Come nasce la storia del libro? Insomma il rischio - che s'è rivelato poi reale - dei “paragoni alti” non t'ha messo un po' di timore?
Timore, no. I paragoni, azzeccati o meno, ci sta che vengano fatti, o comunque te li aspetti. Quando uno scrive, secondo me non deve subirli tanto da paralizzarsi.
Io volevo scrivere un romanzo sull’identità, sul rapporto tra centro e periferia – nel senso più ampio possibile – e sull’appartenenza. Sono temi pesanti, e mi ci sono approcciato con rispetto, mi sono confrontato con la letteratura che ne aveva trattato, e poi ho preso un bel respiro e li ho affrontati a modo mio.
È normale che gli autori che ami ti segnino, e sei felice di omaggiarli con un esergo. Poi però scrivi un romanzo in cui tiri fuori il tuo sguardo. Pasolini e Siti sono entrati nel mio libro in modo diverso. Il primo come riferimento legato quasi solo all’approccio; d’altra parte, racconto di un mondo marginale che è – nel tempo e nello spazio – del tutto diverso da quello che raccontò lui. Siti c’entra soprattutto per quanto riguarda le ambientazioni e certe soluzioni di scrittura, più che sul piano strettamente tematico.
Ho affidato la narrazione a una prima persona – il protagonista – che per la sua storia socioculturalmente mista mi dava la possibilità di spaziare a tutto campo. Ne è uscito fuori un registro abbastanza alto, che a tratti si alza ulteriormente e a tratti precipita verso il basso, in un cortocircuito che vuole rendere la confusione e la complessità interiore del personaggio.
Tutto intorno, nell’ambientazione periferica che nel libro è prevalente, ho inserito una lingua sporca che altro non è che il “romanaccio” che si parla oggi in borgata, lontano dal dialetto romanesco che ancora resisteva nella Roma pasoliniana. In verità sul rischio “macchietta” stavo tranquillo, probabilmente mi rassicurava la conoscenza del parlato che volevo restituire.
In quale Roma ti senti più a tuo agio, quella di Quaresima o quella delle Rovine?
Le ho sempre frequentate entrambe, ma in nessuna mi sento pienamente a mio agio. La Roma bene (“delle Rovine”) mi fa rabbia e mi respinge, perché la conosco meglio e so quanto sia ripiegata su sé stessa, incapace di uscire dall’autoreferenzialità. Le periferie (la “Roma di Quaresima”) mi affascinano molto di più, anche se là passo più facilmente per intruso.
È un fascismo culturale, più che politico. Nasce dall’atteggiamento suicida con cui la Sinistra ha abbandonato le periferie e dalla dismissione d’un sistema collaudato quale la combinazione oratori–sezioni partitiche. La maggior parte dei quartieri marginali, oggi sono abitati da una piccola borghesia incapace di trasformare in politica le proprie sensibilità all’intolleranza e al populismo.
Perché “il Lupo” rappresenta l’opposizione allo Stato senza evolvere in simbolo strettamente politico. Le periferie, private di obiettivi e avversari politici, oggi sono rivoltate contro lo Stato (che non dà servizi, sgombera le case occupate, viene percepito come egoista e lontano). Liboni è il bandito di strada, il cane sciolto, il fuggitivo che ha ingaggiato una battaglia personale con le forze dell’ordine e che dalle forze dell’ordine è stato ucciso su uno sfondo scenograficamente potente come il Circo Massimo... Per molti diventa una specie di eroe romantico, e per rendersene conto basta già vedere sui muri la quantità di scritte che lo osannano.
In partenza era ciò che mi preoccupava di più: non tanto la lingua o i personaggi o l’ambientazione, ma la struttura; avevo proprio paura di non saperla tenere. Prima di questo non avevo mai provato la forma romanzo, neanche abbozzando qualcosa giusto così per fare pratica. Poi in realtà è stato più facile del previsto, e sicuramente mi ha aiutato la scelta di un’assoluta linearità: la trama che si sviluppa cronologicamente lungo sei mesi, senza rotture di alcun tipo nella narrazione, attraverso il racconto di una prima persona.
Da lettore, i comprimari di solito mi piacciono più dei protagonisti, mi sembrano sempre più interessanti. Ne “L’estraneo”, il personaggio più riuscito secondo me è Andrea, il coinquilino del protagonista: quello che ha il sogno più “di borgata”, ma anche quello più proiettato fuori dalla periferia.
Poi, a metterla sull’affetto e sull’empatia, probabilmente Alba, la ragazza che in apertura di romanzo ha lasciato l’Estraneo e che nel corso della narrazione diventa una specie di evocazione.
Assolutamente sì, è un discendente diretto dell’inetto novecentesco. Un ventenne senza talenti, senza qualità, molto sensibile e quindi molto ferito dai suoi insuccessi e dalla chiusura che incontra nel mondo. Uno che ha bisogno di incitarsi all’azione (anche da qui la sua passione per il movimento futurista) perché sa di tendere all’immobilità di un Bartleby o un Bernardo Soares.