venerdì 6 ottobre 2023 - UAAR - A ragion veduta

L’eredità della guerra fredda nelle due anime religiose europee

In Europa orientale l’affiliazione religiosa è più alta rispetto all’Europa occidentale, nonostante la passata repressione comunista. Arianna Tersigni affronta il tema sul numero 2/23 di Nessun Dogma

 

Prima dell’inizio dell’articolo è necessario definire alcuni termini ricorrenti. Per “paesi dell’Europa orientale” l’autrice si riferisce agli stati che appartenevano al blocco sovietico in Europa durante il periodo della guerra fredda, agli stati che componevano l’ex Jugoslavia e all’Albania.

Per “paesi dell’Europa occidentale” l’autrice si riferisce agli stati che appartenevano al blocco occidentale in Europa durante il periodo della guerra fredda. Per “religiosità” l’autrice si riferisce ai seguenti elementi combinati: fede nell’esistenza di una divinità; partecipazione alle funzioni religiose; preghiera privata; definire la religione come un elemento importante della propria vita; rispetto delle norme della propria religione.

Alcuni studi condotti nell’ultimo decennio (Eurobarometer Poll 2010 e 2012; Win-Gallup International Poll 2012-2014; Sondaggio Eurobarometer 2015 – Affiliazione religiosa nell’Unione Europea; sondaggi condotti tra il 2015 e il 2017 dal Pew Research Center) mostrano come in Europa orientale l’affiliazione alla religione sia più elevata rispetto all’Europa occidentale.

Da studiosa dell’area dell’Europa orientale mi sono chiesta perché gli stati di questa regione, che per parte del ventesimo secolo (approssimativamente dal 1945 al 1991) furono sottoposti all’ateismo di stato sotto i regimi autoritari comunisti, abbiano a oggi una percentuale di credenti più alta rispetto a quella dei paesi dell’Europa occidentale, dove invece l’affiliazione religiosa è in costante declino.

Seppure limitatamente, una parte della letteratura accademica sul tema ha provato a indagare come negli stati dell’est Europa, proprio a partire dal collasso dei regimi comunisti, l’affiliazione religiosa tra la cittadinanza sia aumentata, mentre gli stati dell’Europa occidentale siano interessati da una bassa ma costante diminuzione nell’affiliazione religiosa dei propri cittadini.

Questo trend va di pari passo con la percentuale della popolazione che si dichiara atea o agnostica; negli ultimi anni questa percentuale è risultata essere molto bassa nei paesi dell’Europa orientale ma, ancora una volta, in costante aumento in Europa occidentale. Per quanto questa tendenza sia generale, ci sono degli stati che costituiscono dei veri e propri outlier e che è necessario menzionare.

In Europa occidentale la Grecia presenta un valore estremamente alto di religiosità che è in linea con i trend dell’Europa orientale; invece in Europa orientale sono addirittura presenti i due stati europei con le percentuali più alte di cittadini non credenti, cioè la Repubblica Ceca e l’Estonia.

Senza andare ad approfondire le anomalie rappresentate da questi tre paesi, analizzeremo gli studi più significativi sulla materia: Sacro e secolare: religione e politica in tutto il mondo di P. Norris e R. Inglehart (2004), The Role of the State in the Repression and Revival of Religiosity in Central Eastern Europe di A. Neundorf e T. Müller (2012) e Religiosity in Europe: an index, factors, and clusters of religiosity di J. Pereira Coutinho (2016).

I politologi anglosassoni Pippa Norris e Ronald Inglehart hanno elaborato la teoria della “sicurezza esistenziale”, affermando che le persone che attraversano periodi di forte stress hanno bisogno di norme rigide che vadano a compensare l’insicurezza alla quale sono forzatamente sottoposte e la paura che ne deriva.

A seguito del collasso dei regimi comunisti negli anni ’90 molti paesi dell’Europa orientale andarono incontro alla ristrutturazione, in larga scala, delle economie pianificate; questo processo causò crescenti insicurezze economiche e sociali, alle quali la cittadinanza fece fronte ergendo precetti religiosi a norme rigide, quelle norme cui fa riferimento la sopracitata teoria della “sicurezza esistenziale”, che venne appunto utilizzata per spiegare l’incremento dell’affiliazione religiosa verificatosi in questi stati.

I ricercatori tedeschi Anja Neundorf e Tim Müller hanno sottolineato invece come la propaganda antireligiosa portata avanti dai regimi comunisti non sia stata efficace nell’intento di eradicare il sentimento religioso presente nelle società, ma come anzi questo abbia offerto uno spazio di libertà individuale e abbia costituito una sorta di “rifugio” dal controllo e dall’oppressione esercitata dallo stato.

Neundorf e Müller hanno investigato l’effettiva riuscita del tentativo dei regimi autoritari comunisti di secolarizzare le loro società con la marginalizzazione forzata delle religioni, concludendo che la secolarizzazione forzata a opera statale in Europa orientale ha avuto risultati diversi a seconda delle generazioni di cittadini interessate. La generazione cresciuta durante la guerra fredda e quindi sottoposta più di tutte alle politiche di soppressione dei culti religiosi è ancora oggi quella con il tasso di affiliazione religiosa più basso.

Le generazioni cresciute prima e dopo la guerra fredda, quindi rispettivamente prima del consolidamento dei regimi comunisti e dopo il loro collasso, entrambi periodi di libertà di culto, sono invece più inclini a sposare una fede religiosa. Più nello specifico, la generazione precedente la guerra fredda, avendo sviluppato il proprio credo religioso prima del periodo di secolarizzazione forzata, è stata meno influenzata da questa politica perché, come dimostrato dai ricercatori, una volta affermatasi e consolidatasi una fede, difficilmente accade che questa muti o venga scalfita, soprattutto in concomitanza con la fase più avanzata dell’età adulta.

Neundorf e Müller hanno inoltre rilevato come all’interno della stessa generazione cresciuta durante la guerra fredda la percentuale di credenti sia più bassa nelle società governate in passato da regimi comunisti se comparata a quella delle società delle democrazie stabilizzate dell’Europa occidentale. Per indagare quanto efficaci siano state le politiche di marginalizzazione della religione, Neundorf e Müller hanno preso in considerazione una classificazione del rapporto tra stato e chiesa sviluppata dal ricercatore inglese John Madeley nel 2003.

Questa classificazione differenzia dieci categorie, che spaziano da un punteggio pari a 1 (corrispondente all’affermazione «lo stato esiste esclusivamente come ente che promuove la religione») a uno pari a 10 (corrispondente all’affermazione «lo stato costituisce un agente soppressore della religione»). In base a questa classificazione i paesi dell’Europa occidentale presentano punteggi che oscillano da 1 a 5, mentre gli stati dell’Europa orientale sono classificati tra 6 e 10.

Quel che emerge da questa analisi è la correlazione positiva fra la relazione repressiva tra stato e chiesa tipica dell’esperienza dei regimi comunisti e un elevato tasso di affiliazione religiosa conseguente alla caduta dei regimi stessi. Lo studio di Müller e Neundorf conclude che il processo di secolarizzazione forzata attuato durante l’esperienza dei regimi comunisti abbia portato conseguenze diverse rispetto al processo di secolarizzazione spontaneo avvenuto in Europa occidentale negli ultimi secoli; quest’ultimo si è infatti verificato gradualmente, ed è stato causato da cambiamenti sociali ed economici delle popolazioni interessate, mentre in Europa orientale è stato traghettato forzatamente dai vertici politici, spesso in maniera brusca.

L’ultimo studio che riportiamo è stato condotto dal ricercatore portoghese José Pereira Coutinho, che prende in esame l’indice di sviluppo umano regolato in base alle disuguaglianze (calcolato dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) come fattore esplicativo dei tassi di religiosità nei vari paesi. Tale indice tiene conto dei risultati generali.

Il valore dell’indice di sviluppo umano è in media più elevato nei paesi dell’Europa occidentale e più basso in quelli dell’Europa orientale; ciò ha portato Coutinho a concludere che esista una correlazione negativa tra il valore dell’indice e la diffusione dell’affiliazione religiosa in un paese: più alto sarà tale valore (e quindi più elevati saranno gli standard medico-sanitari, scolastico-accademici ed economici di uno stato), minore sarà la tendenza della popolazione ad aderire a un credo religioso.

Infine vale la pena analizzare la forte correlazione, in Europa orientale, tra fede religiosa e identità nazionale, come evidenziato da un’indagine condotta tra il 2015 e il 2017 dal centro studi statunitense Pew Research Center. Negli ultimi trent’anni la religione sembra infatti essersi affermata come una parte importante dell’identità individuale e nazionale in quegli stati dell’Europa orientale dove i regimi comunisti avevano represso i culti religiosi e promosso l’ateismo.

In quest’area è interessante notare come la stragrande maggioranza dei cittadini percepisca la religione come un elemento chiave e fondamentale dell’appartenenza alla propria nazione; per esempio in Serbia e Romania circa il 75% della popolazione afferma che la religione sia un fattore imprescindibile dell’identità nazionale.

Questo fenomeno sembra essere in linea con quanto affermato dai ricercatori austriaci Max Haller, Franz Höllinger e Adriana Valle-Höllinger in un articolo del 2007, nel quale osservarono come le chiese, dopo il collasso dei regimi comunisti, fossero diventate un canale per promuovere, diffondere e talvolta “costruire” l’identità nazionale e culturale. In alcuni paesi circa un terzo dei cittadini afferma che il governo dovrebbe supportare e promuovere la diffusione dei valori e del credo religiosi e che alla chiesa dovrebbe essere riconosciuto un ruolo di spicco nella vita pubblica.

In Bielorussia, Bulgaria, Lituania, Romania e Russia la percentuale di cittadini favorevoli all’influenza della religione negli affari statali oscilla addirittura tra il 40 e il 50%. Si nota anche un elevato consenso sul fatto che le chiese nazionali debbano ricevere fondi statali; in Moldavia, per esempio, circa il 70% della popolazione è favorevole a ciò. In Europa occidentale invece il pensiero prevalente sulla questione è che religione e governo debbano essere separati e che le politiche di quest’ultimo non debbano riguardare le questioni confessionali (in Danimarca, Finlandia e Svezia, per esempio, circa l’80% della popolazione lo afferma).

A oggi il fenomeno della diffusa religiosità nell’area dell’Europa orientale può acquistare un’importanza strategica se si pensa ai potenziali conflitti che avrebbe la capacità di scatenare, anche se le guerre di religione sembrano, almeno in Europa, appartenere a un passato lontano.

Appena trent’anni fa, durante la guerra in Bosnia-Erzegovina (1992-1995), l’allora presidente Alija Izetbegović, per rafforzare il sentimento identitario del proprio esercito, dichiarò che occorreva «islamizzare i bosniaci», la maggior parte dei quali è di fede musulmana; con questo appello alla fede la guerra svelò il proprio aspetto di conflitto religioso (anche se non era quello principale). La Serbia ne approfittò per ergersi a difensore della cristianità slava.

Anche l’odierno conflitto russo-ucraino, benché di natura prevalentemente politica, ha i propri lati confessionali. La chiesa ortodossa ucraina è stata infatti riconosciuta nel 2018; fino a quel momento l’Ucraina era stata soggetta alla chiesa ortodossa russa, dal 2009 sotto il patriarca Kirill. Tale riconoscimento fu fortemente contestato dal patriarcato russo e fu a sua volta supportato dall’allora presidente dell’Ucraina Poroshenko, filo-occidentale e desideroso di sancire, sia sul piano politico sia su quello confessionale, la rottura tra Kiev e Mosca, all’indomani dell’invasione russa di Crimea e Donbass.

Arianna Tersigni


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