mercoledì 8 aprile 2020 - UAAR - A ragion veduta

L’effetto domino, dalle emergenze ai diritti negati

Se già in situazioni normali occorre lottare con determinazione per ottenere il riconoscimento di diritti, in situazioni straordinarie come quella attuale non solo questo diventa più difficile ma si rischia concretamente di assistere a una regressione, alla perdita di quanto si è con fatica conquistato. 

La circostanza estrema è la guerra, dove lo stesso diritto alla vita e i delitti a esso connessi vengono rimessi in discussione o temporaneamente ridefiniti. Adesso non siamo in guerra, non letteralmente almeno, ma siamo comunque in una fase di profonda crisi con prospettive economiche disastrose: terreno purtroppo minato per le minoranze e per chi vive situazioni di disagio, fertile per le prevaricazioni e la coesione intorno a chi invoca, o propone, soluzioni estreme.

Nell’immediato a fare le spese della congestione del sistema sanitario sono state, e sono, le donne con necessità di interrompere una gravidanza indesiderata. Nel Dpcm del 9 marzo veniva fissata la norma, tuttora vigente perché confermata dai successivi decreti, che qualunque prestazione sanitaria in regime di ricovero o ambulatoriale differibile e non urgente va posticipata. La definizione “non urgente” ha però spinto diverse strutture sanitarie a sospendere del tutto il servizio di Ivg perché, a loro dire, non sarebbe urgente. L’Ivg è però urgente per definizione: la legge impone che debba essere effettuata entro novanta giorni dal concepimento. Tre mesi di cui almeno il primo trascorre nell’inconsapevolezza della stessa gravidanza e parte del tempo rimanente viene speso tra burocrazia e “settimana di ripensamento”. Se questa non è una situazione di urgenza cos’altro potrebbe esserlo? Negarlo aprirebbe nuovamente la strada agli aborti in clandestinità, con tutti i rischi che ciò comporterebbe per la salute delle donne.

Paradossalmente, ma neanche poi tanto, proprio la congestione delle strutture sanitarie dovrebbe portare a rivedere gli assurdi paletti imposti per l’aborto farmacologico. Paletti che in Italia impongono la somministrazione del farmaco in regime di ricovero ordinario della durata di ben tre giorni, cosa poco sostenibile in un momento in cui i posti letto scarseggiano, quando invece per le Ivg chirurgiche viene ammesso il day hospital. Paletti che limitano alla settima settimana la modalità farmacologica. Nel resto del mondo la somministrazione del farmaco abortivo avviene in ambulatorio, spesso fino alla nona settimana, il ricovero è riservato a quei pochissimi casi in cui insorgono complicazioni. In alcuni Paesi, tra i quali gli Usa, sono state sperimentate con ottimi risultati perfino somministrazioni domiciliari con assistenza in telemedicina; l’ideale in un mondo che allo stato attuale punta su smart working e didattica digitale. Anche il governo britannico aveva aperto a possibilità simili, salvo poi tornare inspiegabilmente sui suoi passi.

 

Non che vada meglio a chi invece un figlio lo desidera ma non può contare sul semplice rapporto sessuale per ottenere una gravidanza. Tra i trattamenti sanitari non urgenti che sono stati sospesi rientrano anche quelli di procreazione medicalmente assistita, peraltro proprio nella stagione in cui sono generalmente maggiori le richieste di accesso alla Pma. Gli ultimi dati riferiti al 2017 presentano, su base annuale, quasi centomila trattamenti eseguiti su 78 mila coppie che hanno portato a poco meno di 14 mila nascite. Ipotizzando che la ripresa possa avvenire dopo maggio saranno state perdute non meno di quattromila nuove nascite. Molte coppie si troveranno a dover fare i conti da un lato con la delusione per le mancate aspettative genitoriali, dall’altro con il possibile mutamento delle prospettive economiche e sanitarie, perciò la Siru (Società italiana della riproduzione umana) ha avviato un servizio di sostegno telefonico gratuito rivolto alle coppie.

Problemi seri anche per le persone transgender. I farmaci per la cosiddetta Tos, terapia ormonale sostitutiva, necessitano di uno specifico piano terapeutico per poter essere prescritti e di conseguenza forniti. Tale piano ha una scadenza e in condizioni normali l’utente è tenuto a sottoporsi a visita endocrinologica di controllo perché si possa confermarlo o correggerlo. In condizioni normali, appunto. Al momento però la normalità è sospesa e con essa anche le visite specialistiche, quindi chi ha un piano scaduto o in scadenza è costretto a interrompere la terapia con conseguenze impredicibili. Questa ragione ha spinto il gruppo TransVisioni a inviare una lettera aperta al ministro della Salute, sottoscritta da diversi cittadini e associazioni tra le quali l’Uaar, in cui si chiede un provvedimento che autorizzi i medici di medicina generale a poter prescrivere i farmaci anche in assenza di rinnovo del piano terapeutico.

Ancora peggiore la situazione che si trovano a dover affrontare i transgender ungheresi. Dopo il “quasi” golpe con cui il premier Viktor Orbán è riuscito a ottenere pieni poteri, sfruttando da bravo dittatore qual è l’emergenza Covid19 (che tuttavia nel suo Paese sembra decisamente limitata), la sua attenzione si è focalizzata proprio sui diritti civili a cominciare da quelli dei transgender, come del resto era logico aspettarsi. È così passata, senza la necessità di confronto parlamentare dal momento che l’organo legislativo è stato di fatto esautorato, una legge che disconosce qualunque riassegnazione di genere. I transgender non potranno quindi mai essere considerati appartenenti al sesso di destinazione e non potranno quindi sposare una persona dell’altro sesso: per l’Ungheria sarebbe un illegale matrimonio omosessuale.

Laddove non c’è responsabilità diretta dello Stato, a prescindere che sia dovuta alla sottovalutazione di un problema o alla volontà di imporre una morale di parte, potrebbe essere la stessa società, o meglio la sua parte più reazionaria, a prendere di mira le categorie più vulnerabili privandole dei loro diritti e delle loro risorse. È quello che ad esempio si teme in quei Paesi africani nei quali svariate donne, talvolta anche uomini, vengono sommariamente accusate di stregoneria e bandite o uccise. In questo frangente la paura dell’untore, ma anche dell’unto, contribuisce a infiammare la caccia alle streghe classificate ora in una categoria, ora nell’altra. Così come lo spettro della povertà ha la possibilità di far divampare l’odio verso le minoranze, non solo in Africa ma ovunque. Nessuno può dirsene immune. Una cosa simile non succedeva forse un secolo fa nella nostra Europa?

Massimo Maiurana

Foto:Fotomovimiento/Flickr




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