martedì 23 giugno 2020 - Fabio Della Pergola

L’antilluminismo scalpitante

Abbiamo assistito in questi ultimi sprazzi di primavera, contrassegnata dal covid-19, a un paio di manifestazioni di piazza emblematiche dell’evoluzione ultima di un pensiero antiscientifico che parte da lontano.

L’estemporanea sortita del gilet arancioni del generale Pappalardo (subito ribattezzato “generale Aperol”) è stata seguita dopo pochi giorni dall’affollata manifestazione nazionale a Firenze del Movimento 3V (ovvero “Vaccini Vogliamo Verità”), che non erano tutti vestiti di arancione come i pappalardesi, ma ne portavano in piazza le stesse istanze. Che sono istanze banalmente negazioniste.

Negano cioè la validità della ricerca scientifica sia nei termini della diagnosi medica (“il virus non esiste, è un’invenzione”) che in quelli della prevenzione fisica (fino a insultare e offendere chi indossava la mascherina) o biologica, tipica dei no-vax. Nel mezzo anche qualche No-Tav che forse si è fatto prendere la mano dalla voglia di esserci sempre e comunque (ma anche l’avversione all’alta velocità forse non è del tutto incongrua in questo contesto).

Dietro, ovviamente, fanno capolino tutte le teorie cospirazioniste, comprese quelle più strampalate (dalle trame oscure di Bill Gates – preferito al Soros dell’immigrazione “pianificata” – alle incombenti minacce del 5G, che hanno invece soppiantato, si direbbe, le fantasticherie sulle scie chimiche).

Di questo tipo di negazionismi si è sentito parlare non solo nei social, dove abbondano con livelli di demenzialità assolutamente comici, o nei fatti di cronaca talvolta drammatici (come quando si pretende di "curare" l'asma con l'omeopatia con esiti, purtroppo, letali), ma perfino nei circoli più rilevanti al mondo. Prova ne sia la critica che i politici americani vicini a Donald Trump rivolgono a chi indossa la mascherina, subito etichettato come “terrorista ideologico”. Vale a dire come “nemico” della sottovalutazione programmata di una pandemia che sta causando centinaia di migliaia di vittime.

C’è quindi un ambito politico-culturale (anche se il termine “culturale” qui sembra piuttosto inappropriato) che unisce un certo popolo a una certa élite attorno a questo tipo di negazionismo antiscientifico ad ampio spettro.

Ad esso attiene perfettamente il titolo di un recente articolo di Repubblica – Cari illuministi avete perso. Ora tocca a noi” – che sembra riassumere perfettamente il progetto reazionario che unisce, mutatis mutandis, la proposta filosofica neo-heideggeriana di un Alexandr Dugin alle intemperanze di un Antonio Pappalardo, ma che in questo caso riguarda il sociologo polacco Andrzej Zybertowicz, ex marxista e oggi consigliere (sovranista) dell'attuale capo dello Stato Andrzej Duda, intervistato da Wlodek Goldkorn.

La sintesi introduttiva dell’intervistatore chiarisce i termini della critica alla modernità dell’intervistato (“il mondo va troppo veloce e va fermato”) e la relativa proposta risolutiva felicemente riassunta in “l'usato sicuro: Dio, Patria e Famiglia”.

Ma sarebbe imprudente, e forse anche un po’ sciocco, sottovalutare alcuni dei temi che vengono toccati criticamente da Zybertowicz. L’essere umano non è fatto di sola ragione calcolante, di puro raziocinio (non sono certo io il primo a dirlo) e la modernità tecno-scientifica (ma anche economica) che esalta l’aspetto razionale fino a farne l’essenza portante della vita umana – relegando tutto ciò che non è razionale a una sorta di “vita minore”, per bambini e artisti sognatori o liquidandola, maschilisticamente, come “roba da donne” – è causa di quel tot di estraniazione che altri hanno definito “alienazione dell’uomo da se stesso”.

Lasciamo ai neo-razionalisti (che non mancano) l’esaltazione acritica della modernità per andare al punto focale della riflessione del sovranista polacco: la “perdita di sicurezza ontologica” (concetto di Anthony Giddens, l’immaginifico pensatore della “terza via” blairiana, impersonata nel nostro paese dal Rottamatore di Rignano sull’Arno).

Ciò significa che l’essere umano non sa più chi è e cosa sta facendo. Si è smarrito. Quindi, sostiene Zybertowicz, bisogna fermare tutto e ridargli qualcuna delle sue certezze, ossia “gli elementi d'identità che danno il senso di appartenenza collettiva”.

Che non è, per lui, esattamente l’identità etnica, quanto piuttosto quella culturale. I valori propri della tradizione, in questo caso, polacca (ma sembra conseguente – e qui l’impronta di Dugin si fa evidente – che ogni popolo ha i suoi propri valori identitari capaci di ridare la “sicurezza ontologica” perduta). Una Patria capace quindi di accogliere chiunque riconosca e si adegui ai valori di quella specifica tradizione: un inno all’assimilazionismo più intransigente che ben poco ha a che vedere con ogni prospettiva di integrazione dei “diversi”.

E subito dopo, ovviamente, la famiglia. La cellula base di ogni società, afferma l’intervistato, che esiste in quanto animata dal “compito di concepire e crescere i bambini”. Cosa che un rapporto omosessuale non può proporsi (anche se ci sarebbe l’adozione, ma vabbé) mancando allo scopo primario (sic) dell’unione sessuale.

“Non generare figli è una minaccia alla specie umana”, afferma Zybertowicz, senza apparentemente accorgersi che se esiste oggi una minaccia alla specie umana è proprio il contrario del “non generare”: casomai è l'aver generato un po' troppo.

Sta di fatto che nel suo peana a favore della famiglia non esita a sostenere che senza di essa le persone finiscono “preda delle multinazionali o dei demagoghi” (cosa che, a giudicare dai Pappalardo o dai Trump – senza dimenticare i Salvini – sembrerebbe essere, anche qui, proprio il contrario).

E dopo la Patria (nel senso della tradizione culturale) e la Famiglia chi poteva mancare se non Dio? O meglio il “sacro”. Che naturalmente attiene, nella logica del pensatore polacco, alla "vita" del feto (che in realtà è solo potenzialità di vita, ma lui forse non lo sa): “di quel sacro fa parte la difesa dell'origine della vita umana”. Da salvaguardare contrastando l’aborto e le donne che dicono “ho fatto sesso di mia volontà, ma non voglio subirne le conseguenze”.

Donne che non “pagano” adeguatamente, insomma, per la loro libertà sessuale (e chissà perché dovrebbero). La gravidanza come pagamento dovuto non sembra aver niente a che fare con il “dono della vita”, ma anche questa è solo una delle piccole perle (violente) che ci vengono regalate in questa intervista.

E dal sacro alla trascendenza il passo è scontato: “tutte le religioni hanno in comune la trascendenza e insegnano l'umiltà perché fanno capire che il mondo non è totalmente comprensibile con la ragione”.

Qui il cerchio si chiude. Non tutto è comprensibile con la ragione quindi tutto è attribuibile al dio.

Si parte con un’affermazione corretta – come comprendere l’arte o il linguaggio dei sogni con la sola razionalità? – per finire con il solito delirio religioso di sempre. L’usato sicuro, come lo definisce Goldkorn, con espressione felice.

Aria fritta e rifritta da millenni, insomma; composta con un insieme raffazzonato di retrotopia – cioè di «utopia retroattiva: richiamo a un passato mitico, inventato e che si presenta come la più seducente possibilità di fuga dalla angustie di un incerto presente», come la definiva Zygmunt Bauman – e di progetto politico reazionario, di cui abbiamo già parlato a proposito della teorizzazione di Alexandr Dugin: «vogliamo opporre al liberalismo vincitore qualcosa che vada oltre la modernità, auspicando il ritorno alla pre-modernità, al mondo tradizionale (…) che non deve essere un “ritorno al tempo passato”, ma ai principi eterni della Tradizione (...) non è conservatorismo, ma è un appello all’eternità».

Qui il discorso si fa più sofisticato. Se infatti possiamo liquidare come un incomprensibile ritorno al medioevo i deliri antiscientifici dei più stolidi (o dei meno attrezzati culturalmente), non si può certo negare che l’antilluminismo (termine coniato nientemeno che da Friedrich Nietzsche) abbia una sua dignità di pensiero.

Non si tratta cioè di pensiero moderno vs. pensiero pre(o anti)moderno, quanto piuttosto di due forme diverse della modernità. Lo sosteneva anche Zeev Sternhell, lo storico israeliano recentemente scomparso, nell'introduzione al suo Contro l'Illuminismo: da una parte «la modernità portatrice di valori universali, della grandezza e autonomia dell'individuo padrone del suo destino» e, dall'altra, «la modernità comunitaria, storicista, nazionalista, una modernità per la quale l'individuo è determinato e limitato dalle origini etniche, dalla storia, dalla lingua e dalla cultura».

La prima è quella dell'individuo che è tale per propria personale identità e che si serve della «società e dello Stato come strumenti (...) per la conquista della libertà e della felicità»; la seconda quella dell'individuo che è «quello che hanno fatto di lui i suoi antenati, la "zolla" nella quale essi sono seppelliti e dalla quale lui stesso è nato».

Su questa dicotomia si sono giocati, tragicamente, i contrasti drammatici degli ultimi due secoli fra il mondo liberale che ha dato faticosamente vita alle democrazie contemporanee (con tutti i loro limiti, le loro ipocrisie, le loro contraddizioni, ma anche con la salvaguardia, almeno teorica, dei diritti civili e delle libertà fondamentali dell'individuo) e i vari fascismi che sono sono sgorgati, tramite il facilmente spendibile "usato sicuro", dall'antilluminismo.

E non è ancora finita, a leggere Dugin o quelli che appaiono come suoi epigoni, in primis Zybertowicz.

Se non fosse un termine abusato bisognerebbe ricorrere anche qui – ben più che in ambito economico come è stato – a una "terza via": proporsi un superamento del riduzionismo illuminista (che non è tale perché si limita alla ragione, ma perché elimina violentemente tutto ciò che ragione non è, attribuendolo perfino a un immaginato lato bestiale dell'uomo), senza cadere nell'oscurantismo antilluminista (che affermando l'esistenza del non razionale, lo attribuisce al divino, negandolo, altrettanto violentemente, all'uomo stesso).

Su questo – che alla fine non è nient'altro che la ricerca di una nuova antropologia – si dovrebbe mobilitare l'intellighenzia di sinistra, separandosi sia dalla piaggeria verso la versione "buonista" del solito "usato sicuro", il dio/patria/famiglia giusto un po' edulcorato perché non dispiaccia troppo ai palati progressisti – che dall'appiattimento sul materialismo razionalista che si riduce a banale economicismo da amministratori condominiali.

La sinistra deve darsi da fare se vuole sopravvivere con un minimo di dignità all'interno di questo scontro titanico fra i mondi delle "diverse modernità", cercando di sottrarsi dalla situazione di vaso di coccio fra vasi di ferro in cui si è trovata da decenni e in cui sta rischiando davvero di scomparire.

 




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