venerdì 23 settembre 2011 -
L’Italia perde posizioni tra le economie liberali

Non bastavano le analisi dell'Istituto Bruno Leoni a certificare le difficoltà dell'Italia nel promuovere le riforme necessarie a sburocratizzare lo Stato e favorire un sistema più liberale, arrivano anche i dati di uno studio del Fraser Institute di Vancouver, che posiziona il nostro paese al 70° posto mondiale nella classifica della libertà economica.
Dal dossier emerge una realtà di fatto: i paesi più liberi sono quelli che in generale vantano una media dei redditi più elevata.
Al primo posto della classifica infatti svettano Hong Kong, Singapore, Nuova Zelanda, Svizzera, Australia e Canada, dove i vincoli all'attività economica sono meno presenti, che si posizionano anche tra i paesi con il livello maggiore di reddito pro-capite.
Ci sono anche le dovute eccezioni: ad esempio restano piuttosto indietro le ricche Norvegia e Olanda (35° e 30° posto) mentre il "liberale" Cile (7° posto) ha un reddito simile al Gabon.
Nella zona "retrocessione" della classifica sulla libertà economica compaiono Zimbawe, Myanmar, Venezuela ed Angola, mentre l'ultimo paese dell'area Ocse è Israele (83' posto su 141).
Resta proporzionale il rapporto libertà / crescita economica: i paesi più liberi hanno aumentato il Pil del 3,1% nel periodo 1990/2009, mentre quelli con più vincoli si sono arrestati in media all'1,2%.
Anche gli Stati Uniti perdono posizione, scendendo dal settimo al decimo, su cui ha influenzato l'aumento della spesa pubblica generato dalle politiche anti-cicliche (che in generale hanno fatto arretrare diversi paesi ricchi).
L'Italia ovviamente scende e passa dal 66° al 70° posto.
Il nostro Paese ha ben pochi primati di cui potersi vantare.
In generale regge la salute del sistema monetario (offerta di denaro, inflazione, libertà valutaria), dovuta soprattutto alla partecipazione di Eurolandia, e mantiene una relativa apertura delle frontiere (con tutti gli effetti collaterali, vedi Lampedusa ndr) accompagnate da un livello di import-export ancora accettabile.
Restiamo indietro invece su altri fronti delicati: la struttura legale e la tutela dei rapporti di proprietà, i tribunali (non percepiti come "imparziali"), la difficoltà di ottenere il rispetto dei contratti, il basso livello dell'attività imprenditoriale dovuta ai troppi controlli sui prezzi, vincoli amministrativi e costi della burocrazia.
Da non dimenticare il peso rilevante della corruzione e dei favoritismi. Anche il mercato del lavoro viene giudicato troppo rigido, quasi esclusivamente a causa delle regole su assunzioni e licenziamenti e della contrattazione nazionale.
Infine, il peso troppo eccessivo del settore statale: troppe spese e troppe tasse, soprattutto le imposte sul lavoro.