giovedì 4 aprile 2019 - Fabio Iuliano

L’Aquila dieci anni dopo, il mestiere di vivere nella città segnata dal sisma

Il 6 aprile 2009, alle 3.32, fu registrata una scossa di 6.3 di magnitudo. Il bilancio definitivo del terremoto dell’Aquila fu di 309 vittime, più di 1.600 feriti, mentre 65mila persone dovettero abbandonare le loro case. Crollarono la Casa dello Studente, il palazzo della Prefettura, alcuni locali dell’ospedale. Tutto il centro storico della città riportò seri danni e l’accesso ne fu precluso per molto tempo.

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Piazza Duomo
Il cuore della vita, la piazza della Cattedrale e della Basilica delle Anime Sante (foto: Fabio Iuliano)

A dieci anni esatti dal terremoto dell’Aquila, nonostante le criticità innegabili, molto è stato fatto. Il #10yearschallenge rende bene a tratti. Circa 23mila le pratiche evase nel capoluogo. "Stiamo cercando di rendere giustizia a un Paese che, dall’inizio dell’emergenza, ha speso qualcosa come 18 miliardi", spiega il sindaco Pierluigi Biondi. Il dato complessivo dei contributi concessi per tutte le frazioni è pari a 1.627 istruttorie per un totale di 6.765 unità immobiliari. La ricostruzione ha riportato luce su vari monumenti tra chiese, Fontane, palazzi e teatri e le periferie del capoluogo abruzzese sono quasi completamente ricostruite, cosa che non può certo dirsi per le frazioni (alcune anche molto distanti) e i 56 paesi del circondario dove i lavori muovono ancora i primi passi.

La vera ombra riguarda la ricostruzione pubblica, praticamente al palo, in particolare quella delle scuole: nessuna ad oggi è stata ricostruita, una è in ricostruzione, la Mariele Ventre. Restano come nel 2009 gli scheletri delle vecchie scuole, abbandonate e non demolite, dalla Mazzini alla Carducci all’Istituto d’Arte Muzi. Da diversi anni sono disponibili 44 milioni ma le uniche scuole ricostruite e rientrate in centro sono due private.

Nel corso di questo tempo, scelte strategiche di ricostruzione post-terremoto hanno lasciato una prima impronta all’interno del centro storico, specie a ridosso dell’incrocio tra il cardo e il decumano della città. Ma a creare fermento è stata la grinta di una comunità che non ha mai avuto modo di adagiarsi in un tessuto sociale accogliente, sovrapponendo le proprie passioni e la voglia di centro a un tessuto sociale che esiste e non esiste.

Nessuno se la sentì, ad esempio, di fermare il flusso di gente che, per la prima volta, forzò le transenne ai Quattro Cantoni. Nel febbraio del 2010, dopo dieci mesi di emergenza, alle ferite del sisma si era sovrapposta l’ingiuria delle parole degli imprenditori che ridevano nelle intercettazioni di una telefonata risalente alle ore immediatamente successive alla scossa, ma rivelata solo dieci mesi dopo. E questo aveva contribuito ad accrescere la tensione.

A spingere quelle transenne c’erano soprattutto decine di chiavi appese simbolicamente come per dire: "Qui ci sono le nostre case, il centro storico è nostro e vogliamo riprendercelo". «Tornatevene a casa: disobbedite ai divieti. Tornate e riprendetene possesso con le vostre cose, i vostri rumori e i vostri odori». Farà poi dire alla luna, lo scrittore-giornalista Paolo Rumiz nella post-fazione ai Gigli della memoria (Tabula Fati). «La zona è rossa, ma di vergogna perché viene preclusa ai vivi. Non lasciate sole le vostre pietre». Una sfida rimasta in sordina per molti, alle prese con la fatica di un quotidiano che, specie all’inizio, tutto sembrava meno una vita normale.




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