giovedì 24 agosto 2017 - Phastidio

Jobs Act e il miracolo che aumenta lo stipendio dei nuovi assunti

Ieri sul Sole trovate un interessante intervento del professor Marco Leonardi, consigliere economico della Presidenza del Consiglio, in cui viene formulata un’ipotesi suggestiva: quella secondo cui, per citare il titolo del commento, “Jobs Act e decontribuzione spingono in alto i salari”. Dopo averlo letto, e pur apprezzando l’architrave economica del ragionamento, è difficile sfuggire alla sensazione che vi siano non poche forzature nell’inferenza.

Leonardi prende le mosse da una ricerca dell’agenzia europea Eurofound sulla polarizzazione dei redditi, un problema purtroppo noto nei paesi sviluppati, in cui i nuovi impieghi tendono ad essere in prevalenza scarsamente remunerativi e di qualità bassa. La radice della diseguaglianza di reddito, fenomeno che ha determinanti quali l’innovazione tecnologica e (a livello di paese) la struttura economica. Ad esempio, e Leonardi lo ricorda, l’Italia tende a creare occupazione nei servizi a basso reddito (e basso valore aggiunto, non scordiamolo) anziché in manifattura avanzata e nuove tecnologie, ferma restando la differente intensità di lavoro e capitale di queste attività.

Prendendo le mosse da questa tematica, Leonardi si chiede

«[…] se il Jobs Act – nelle sue due caratteristiche principali di aver contemporaneamente ridotto i costi di licenziamento e di aver tagliato i costi del lavoro per i nuovi assunti nel 2015 e 2016- abbia contribuito a creare posti di lavoro a basso reddito o abbia invece contrastato questa tendenza»

Già qui qualcosa non torna: a lume di logica e buonsenso, i posti a retribuzione più elevata sono figli del maggiore valore aggiunto di un settore, che non è immediatamente legato alla riduzione dei costi di licenziamento e di quello del lavoro. A parte ciò, visto che tutto è relativo, Leonardi passa ad analizzare i dati Inps degli ultimi anni, segnalando quanto segue:

«[…] in questi anni i salari medi dei nuovi assunti a tempo indeterminato (l’unico contratto su cui ha agito il Jobs Act) sono aumentati da circa 1900 euro mensili lordi del 2013 e del 2014 a 2050 euro lordi circa nel primo semestre del 2017. I salari medi delle nuove assunzioni a termine, degli apprendisti e degli stagionali sono invece rimasti pressoché stabili. Lo stesso vale per la distribuzione delle retribuzioni: la percentuale di retribuzioni lorde medie dei nuovi assunti a tempo indeterminato al di sotto dei 1500 euro lordi è diminuita dal 40% circa del 2013 e del 2014 al 35.7% del 2016 e 33.6% del 2017; nello stesso periodo la percentuale di retribuzioni lorde al di sopra dei 2000 euro mensili lordi è aumentata dal 27% al 31.5%»

Quindi, per riassumere: dal 2013 al 2017, primo semestre, i nuovi assunti a tempo indeterminato guadagnano di più, mentre i nuovi assunti come apprendisti e tempi determinati restano con retribuzione invariata. Inoltre, i nuovi assunti a tempo indeterminato tendono ad avere retribuzioni più altre. Torniamo alla domanda di Leonardi: possiamo inferire che questo fenomeno sia legato al Jobs Act, tramite riduzione dei costi di licenziamento e riduzione del costo del lavoro a mezzo di decontribuzione triennale, cioè temporanea? Secondo l’accademico, è possibile:

«Gli effetti della riforma del mercato del lavoro sui salari possono essere di due tipi: se una legge riduce i costi di licenziamento di un lavoratore già occupato, si riduce anche il suo potere contrattuale e con questo anche potenzialmente suo salario; ma se si riducono i costi di licenziamento solo per i nuovi contratti (come ha fatto il Jobs Act) i lavoratori che non sono ancora occupati ma stanno cercando un’occupazione potranno concordare un salario più alto a fronte della riduzione della protezione contro il licenziamento. Questo è tanto più vero quanto più le nuove assunzioni a tempo indeterminato del Jobs Act sono avvenute con una decontribuzione per il datore di lavoro che potenzialmente si può traslare in un salario più alto per il lavoratore»

Suggestivo ed anche dotato di fondamento economico, almeno a livello astratto. La riduzione dei costi di licenziamento riduce il potere contrattuale del lavoratore ma si traduce anche in una riduzione di costo per il datore di lavoro: tale beneficio può essere spartito tra lavoratore e datore. Ma quando accade ciò? Intuitivamente, in base alla forza contrattuale del lavoratore, cioè alle sue competenze: è un caso di domanda e offerta di lavoro, e di inclinazione delle rispettive curve. Un mercato molto segmentato perché riflette le differenti competenze. Detto in termini meno astratti: gli ad personam in busta paga varieranno a seconda del profilo professionale dell’assunto. Leonardi estende il ragionamento, in modo un po’ spericolato, anche al beneficio economico transitorio della decontribuzione, ipotizzando che anch’essa potrebbe quindi essere in parte finita al lavoratore. Anche qui, immaginiamo in base alla sua forza contrattuale. Se assumere qualcuno è difficile, perché si tratta di profilo professionale in vario modo specialistico, serve pagarlo. Più problematico valutare se ed in che misura un’azienda decida di cedere parte del beneficio transitorio di decontribuzione al lavoratore.

Che si può dire, di queste inferenze di Leonardi? Che sono suggestive ma non considerano un elemento fondamentale: gli effetti di composizione dello stock di nuovi assunti. Spieghiamoci meglio: se le aziende, peraltro in corrispondenza di una ripresa (elemento a cui Leonardi mai fa cenno nella trattazione), decidono di assumere più personale per posizioni specialistiche rispetto ai “generici” (magari perché stanno entrando in nuovi mercati o adottando innovazioni di prodotto e processo) è fatale che, in media, lo stock di nuovi assunti del periodo interessato tenderà ad avere retribuzioni maggiori, perché questo stock di nuovi assunti vedrà (sempre per semplificare e farsi capire) l’ingresso in azienda di più quadri direttivi e dirigenti rispetto ad impiegati.

C’è un effetto ottico di “inflazione salariale”, in questo tipo di statistiche, che deriva in realtà da un effetto di composizione, da cui consegue la fallacia in cui cade chi balzi a conclusioni del tipo “gli stipendi dei nuovi assunti a tempo indeterminato crescono; i nuovi assunti a tempo indeterminato sono entrati col Jobs Act; ergo il Jobs Act fa crescere le retribuzioni”. E poi magari chiudere il cerchio ipotizzando che ciò accada perché il valore della protezione da licenziamento, rimossa dal Jobs Act, venga spartito tra datore di lavoro e lavoratore, con quest’ultimo quindi che monetizza un’opzione reale. Questo accade, ma non sempre: ribadiamolo, è funzione del potere negoziale del neo-assunto. Rispetto al quale il Jobs Act nulla c’entra.

Per concludere, l’impressione è che Leonardi abbia presentato un’ipotesi di lettura di un fenomeno forzando la conclusione per incasellarla nella tesi da dimostrare, e cioè le virtù pressoché taumaturgiche del Jobs Act. Che continua, a mio giudizio, ad avere uno ed un solo effetto positivo per le aziende ma anche per il mercato del lavoro: la riduzione dei firing costs, i costi di risoluzione del rapporto di lavoro, diretti ed indiretti. E pazienza se qualcuno tra voi che leggete in questo momento avvamperà di sdegno per questa constatazione. Che è oggettiva. Per contro, il Jobs Act nulla risolve, e forse ha un discreto potenziale controproducente, dal lato della riduzione del costo del lavoro, perché dal primo gennaio del prossimo anno quest’ultimo farà un bel gradone all’insù, per la parte di organici aziendali entrata con questa decontribuzione temporanea. Per assorbire il quale, le aziende dovranno spingere la produzione di valore aggiunto, altrimenti saranno problemi.

 

Aggiornamento – Leonardi ammette che l’effetto di composizione può esistere ma che, in assenza di microdati, la sua resta un’ipotesi. Esattamente come quella sulla migliore qualità delle assunzioni con Jobs Act, peraltro.




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