martedì 18 agosto 2020 - Fabio Della Pergola

Israele-Emirati: la sceneggiata è servita

La politica mediorientale si è arricchita di un nuovo episodio, come qualsiasi telenovela che si rispetti.

Mentre Beirut ancora piange morti e distruzione causati dall'incomprensibile fatuità omicida dei suoi governanti, oggi – alla vigilia di ferragosto – si parla della trattativa di reciproco riconoscimento tra Emirati Arabi Uniti e Israele che sembra arrivata alla sua conclusione positiva.

Non si tratta di un trattato di pace per il semplice fatto che tra i due protagonisti non c’è mai stata guerra, a differenza di Libano e Siria che sono tuttora in stato di guerra formale con lo stato ebraico, ininterrottamente dal 1948 (salvo armistizi), o di Egitto e Giordania che dopo i vari conflitti con Israele hanno effettivamente trattato e sottoscritto una pace permanente.

L’accordo di cui si parla è stato preceduto da una sceneggiata molto teatrale di cui solo oggi riusciamo a ipotizzare le motivazioni reali.

Si è parlato in tutte le cancellerie del mondo, e su tutti i giornali, del proposito di annessione di ampie parti della West bank da parte del governo Netanyahu. Si trattava di zone già sotto il diretto controllo israeliano da quasi sessant’anni, che non fanno parte delle aree sotto controllo palestinese secondo gli accordi di Oslo, ma che tuttavia sono considerate territorio sulla cui appartenenza nazionale la discussione è o dovrebbe essere ancora aperta. Non a caso, nonostante il lungo e ininterrotto controllo israeliano, la dichiarazione di annessione ha suscitato scalpore e sdegno nel mondo musulmano e critiche in ambito internazionale, USA compresi, cui si sono aggiunte anche quelle di ampi settori del mondo ebraico, israeliano e non.

Poi la data decisa per passare alle vie di fatto, il primo luglio, è trascorsa senza che nulla accadesse. Si è accennato a problemi tecnici o a contrasti politici ancora non sanati tra le due componenti dell’attuale governo. E il tempo è passato e l’annessione non c’è stata. Non sarebbe cambiato granché sul terreno, ma la formalizzazzione dell’occupazione di un territorio formalmente ancora di nessuno, avrebbe avuto un significato profondo.

La Cisgiordania (o West bank, oggi Territori “occupati” o “contesi” a seconda del punto di vista) era stato occupato dal Regno di Giordania nel corso del conflitto del 1948 e abbandonato definitivamente nel 1973 dopo la sconfitta degli stati arabi nella guerra del Kippur, senza che mai venisse proclamata l’indipendenza di un possibile (in quel lungo arco di tempo) stato di Palestina. Nel 1988 la Giordania dichiarò ufficialmente di aver rinunciato alle sue pretese sull'area e la West bank rimase così terra di nessuno, rivendicata dai palestinesi come proprio territorio nazionale, ma sotto controllo militare di Israele che peraltro, a parte Gerusalemme Est e le alture del Golan, non aveva mai ipotizzato di annetterselo di propria iniziativa. Fino a ieri.

Oggi la dichiarazione di reciproco riconoscimento fra Emirati e Israele – che, dicono gli analisti, potrebbe preludere a un accordo ben più significativo tra lo stato ebraico e il regno saudita (cioè la patria della prima città santa dell’Islàm) – viene accompagnata dalla conferma che l’annessione è formalmente “sospesa”.

Vale a dire, potremmo tradurre, che era stata annunciata senza volerla davvero mettere in atto, per poter determinare a tavolino un indispensabile successo diplomatico per gli Emirati, facendoli apparire come quelli che hanno bloccato l’annessione israeliana con la loro capacità di trattativa politica.

Una vittoria di facciata che salva la faccia. Perché in Medio Oriente non si può non salvare la faccia. Cosa che ai palestinesi è stato impedito fino a oggi, anche per le innumerevoli scelte demenziali che, più per motivi interni che per reali costrizioni esterne, loro stessi hanno compiuto nel corso di questo interminabile inverno del loro scontento. Come accadde in occasione del rifiuto, vent’anni fa, della proposta Barak che offriva, in cambio della pace, quasi esattamente quello che oggi fa parte delle richieste palestinesi.

L’accordo con gli Emiri del Golfo fa tornare nel novero delle cose possibili la presenza ebraica nel mondo arabo, anche fosse nelle vesti di uno Stato che fino a ieri era considerato solo un’inaccettabile presenza estranea su terra ritenuta di esclusiva pertinenza islamica.

Come scrive Maurizio Molinari su Repubblica «La riapertura dell'antica sinagoga di Manama e l'inaugurazione di quella più nuova a Dubai, il cibo kosher servito negli Emirati come gli auguri per le feste ebraiche arrivati dalle capitali del Golfo hanno riproposto un legame millenario fra queste tribù sunnite e il popolo ebraico che ha portato a considerare Israele un tassello regionale, facendo venire meno la principale, e più radicale, obiezione del nazionalismo arabo al sionismo come "occupazione coloniale di terre musulmane"».

L’obiettivo, ormai noto a tutti, è quello di consolidare un asse politico-militare in funzione anti-iraniana e anti-turca tra Israele e molti stati arabi, attraverso ponderati passi successivi, resi difficoltosi dalla presenza ingombrante della questione palestinese. Che da bandiera di combattimento dell’intero mondo islamico contro l’Occidente è ormai diventato solo la bandiera, palesemente ipocrita, dell’espansionismo iraniano.

E, nello stesso tempo, un fastidioso intralcio per molti paesi "fratelli".

Foto: Kremlin.ru

 




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