martedì 12 settembre 2017 - UAAR - A ragion veduta

Islam: qualche proposta per convivenza

Commentando il mio precedente articolo “L’islam è un problema” alcuni lettori hanno lamentato la mancata proposta di soluzioni. Che in effetti non c’erano. Volutamente: perché il tema su cui volevo soffermarmi era il riconoscimento del problema. 

È inutile avanzare proposte quando da una parte non si riconosce l’esistenza di un problema, e dall’altra si nega che il problema possa essere risolto. Da questo punto di vista, la risposta dei lettori è stata incoraggiante: non sono pochi coloro che riconoscono l’esistenza di un problema e che, nel contempo, sono anche animati dal desiderio di risolverlo. Sono sicuramente di più di quanto potreste pensare grazie ai mezzi d’informazione.

La mia opinione è che la fede possa rappresentare un problema per chi la pratica, specialmente quando la pratica in modo estremo. Ma, per l’appunto, è soltanto la mia opinione. Libero chiunque di vivere la fede come vuole, anche di essere salafita o ciellino se vuole, purché non abbia conseguenze su chi non lo vuole. Nell’affrontare il tema, quindi, farò riferimento alla problematicità dell’islam su scala più ampia (come in forme più limitate, può esserlo Comunione e Liberazione). A mio avviso, se non verranno velocemente individuate soluzioni, lo scontro di civiltà sarà una profezia che si autoavvera. Per essere più precisi, non bisogna soltanto cercare di individuarle: è necessario individuarle. Senza alcuna pretesa di esaustività ne avanzo alcune. Non sono certo tutte farina del mio sacco, ma hanno sinora ricevuto poco risalto. E proprio perché non se ne discute, hanno ampi margini di miglioramento. Ogni suggerimento è quindi benvenuto.

1. L’islam è una religione. Ma non è una Chiesa

L’islam è estremamente informale ed è ben lontano dall’avere un’organizzazione centralizzata: anche la più piccola congregazione cristiana è più formale e regolamentata di qualunque realtà musulmana. L’imam è un semplice fedele che guida la preghiera, ma non è un parroco che gestisce una parrocchia. Una moschea non è una parrocchia: è qualcosa di più, una sorta di centro sociale islamico, mentre la parrocchia tradizionalmente intesa è la cinghia di trasmissione del vescovo sul territorio.

Dunque, smettiamo di proiettare categorie cristiane sull’islam. Non aiuta. Le soluzioni vanno individuate prendendo l’islam per quello che è, non per quello che pensiamo che sia o che vorremmo che fosse. Per esempio, mass media e istituzioni occidentali non coinvolgono mai il faqih (il giurista islamico), l’alim(“l’esperto” d’islam) o lo shaykh (colui che è rispettato per la sua sapienza), nonostante siano molto più preparati e raramente più estremisti degli imam. Viene il dubbio che non ce ne siano, in Occidente — ma ce ne sono. E se proprio media e istituzioni non ne trovano diano la parola agli accademici, piuttosto che a improbabili imam.

A leggere le cronache, viene infatti da pensare che chiunque abbia interesse a fare l’imam, anche se improvvisato, può farsi avanti e vedersi prontamente affidata dai fedeli non solo la guida della preghiera, ma l’intera gestione della moschea — un’attività che, a differenza di quante accade nei paesi a maggioranza musulmana, deve essere considerata una gatta da pelare, peraltro remunerata poco o nulla. Il risultato è che nell’islam occidentale mancano gli anticorpi. Fa un po’ impressione che il leader della comunità spagnola si lamenti che lo Stato non comunichi i precedenti penali degli imam. Perché è giusto che non lo faccia e che non lo faccia con qualunque religione, partito, sindacato o associazione. Se troppi imam delinquono è perché è il mondo musulmano a gestire molto male il problema.

Lo si vede anche nella frequente radicalizzazione del detenuto musulmano. Tanto frequente che capitò già a Malcolm X (e teniamo da parte il problema — spinosissimo — di quanto un radicalizzato possa considerarsi un detenuto riabilitato). È un fenomeno di cui portano responsabilità anche le istituzioni: nelle carceri non occorre l’imam come non occorre l’invadente e privilegiato cappellano cattolico, ma l’accordo del 2015 tra il ministero della giustizia e l’Ucoii va proprio nella direzione di “chiesizzare” anche un’organizzazione islamica. Nei penitenziari occorre disporre di personale preparato e laico. Intendendo, con questa parola, un civil servant che non manifesta mai le proprie opinioni in materia di fede. È urgente, in un contesto in cui i musulmani sono ormai il venti per cento della popolazione carceraria, ma hanno molta reticenza a manifestare la propria fede “per evitare lo stigma”.

2. Non costruiamo (più) ghetti

Il pluralismo è un valore. Ma soltanto quando i soggetti interagiscono. Altrimenti l’insieme sarà soltanto virtuale: una comunità di solipsisti. È dunque indispensabile che tutti si rendano conto che non esiste e che non deve esistere un solo modo di concepire il mondo, e che avere vicini di casa che la pensano diversamente non è una catastrofe. Anzi. In proposito c’è un ulteriore dato di cui tenere necessariamente conto: stando al World Values Survey, la più grande e autorevole inchiesta sociologica su scala mondiale, il desiderio di non avere vicini immigrati, di differente religione o di differente origine etnica è più alto della media proprio tra i fedeli musulmani (più alto, per capirci, che tra i cristiani, i buddhisti, gli induisti e i “senza religione”).

Molenbeek, Birmingham, Sevran, Malmö… i danni sono stati giganteschi. In Italia non ci siamo ancora arrivati. Ma, poiché la tendenza a spostarsi dove già vivono persone amiche è umanissima, potrebbe presto accadere. E bisogna quindi agire perché non accada. In prospettiva, il luogo più idoneo per affrontare il problema è ovviamente la scuola. Pubblica: perché favorire le scuole private (quantomeno quelle confessionali) è il modo migliore per introiettare sin da piccoli la logica del ghetto. La scuola pubblica rappresenta il momento in cui si entra in contatto con gli “altri” e in cui si può imparare a conviverci. Soprattutto a tavola: la pluralità di menu è ormai un’esigenza (anche per il moltiplicarsi di regimi alimentari seguiti) e consente al bambino di famiglia musulmana di sedersi fianco a fianco con bambini di altre estrazioni che mangiano cibi differenti. E viceversa.

Tutti a mensa, quindi. Ma anche tutti a educazione fisica, ed educazione sessuale per tutti. Le esenzioni religiosamente motivate non sono di alcun beneficio. Naturalmente, non lo è nemmeno l’insegnamento della religione cattolica: agli alunni non dovrebbe essere mai insegnato che è necessario dividersi. Molto meglio venire a conoscenza, da parte di personale preparato e laico, di cosa sostengono altre religioni (e filosofie atee e agnostiche). Ancora meglio, bisognerebbe espandere notevolmente il tempo dedicato a imparare i valori costituzionali (anche quando si è adulti, e non necessariamente di fede islamica).

Nell’attesa che crescano generazioni dalla mente più aperta sarebbe essenziale evitare ulteriori ghetti. È molto difficile riuscirci, è doveroso riconoscerlo. Un nuovo, vasto programma di edilizia popolare, con assegnazioni razionali, potrebbe essere di grande aiuto. Come potrebbe esserlo il rilancio dell’assistenza sociale, sganciata da ogni forma di clientelismo. Anche gli assistenti sociali dovrebbero essere preparati e laici: perché non ha senso, ed è anche un po’ odioso (oltre che oneroso per le finanze pubbliche), esternalizzare il servizio alle Caritas quando numerosi indigenti non sono cattolici.

3. La libertà è un valore per tutti

I musulmani devono essere liberi di praticare la loro fede. I non musulmani devono essere liberi dai precetti dell’islam. E i musulmani che vogliono praticarlo in un modo che non piace ad altri musulmani devono a loro volta essere liberi di farlo. Nessun musulmano deve subire pressioni per convertirsi al cristianesimo, ma anche le ragazze musulmane non devono subire pressioni (se non peggio) per praticare la fede come non vorrebbero.

Andando dritti al problema: tutti coloro che sono nati in famiglie musulmane devono essere liberi di abbandonare l’islam. Qualcuno, seguendo la tradizione, continua a ritenere che meritano la morte? Non deve più permettersi di sostenere tesi simili. Accadeva — e con tanto di bollino di ufficialità — anche nel cattolicesimo, sulla base del Corpus Iuris Canonici in vigore fino al 1917. Le tradizioni sbagliate si devono semplicemente accantonare. Che tutti possano cambiare idea, qualunque idea e in qualunque direzione vogliano è un sacrosanto diritto umano, anche quando ci arrabbiamo perché non la pensano più come noi. La Chiesa cattolica non ha per niente gradito il riconoscimento del diritto allo “sbattezzo”, ma ha dovuto accettarlo. Le organizzazioni musulmane devono fare altrettanto. E devono farlo capire inequivocabilmente anche a chi ne fa parte, nonché agli Stati che ancora applicano la pena di morte agli apostati.

Discorso analogo per la libertà di espressione. Tema caldissimo. Dopo la strage di Barcellona, sulla prima pagina del Charlie Hebdo si definiva l’islam “una religione di pace… eterna”. L’ex ministro socialista Stephane Le Foll ha reputato tale vignetta “estremamente pericolosa”. Sarebbe interessante sapere come giudica i passaggi ben più violenti contenuti nella Bibbia e nel Corano: sarà capace di scoraggiarne la lettura? Non penso. È quindi importante comprendere, fin dai primi anni di scuola, che le opinioni e le ideologie si possono criticare sempre e anche aspramente, mentre è completamente diverso offendere e diffamare le persone. Costituisce reato, e costituiscono reato anche l’apologia di reato e l’istigazione all’odio. Vale per chi festeggia le stragi jihadiste e per chi invita a sparare senza indugio a chi urla in piazza “Allah Akbar” (strappando così un applauso al meeting di Comunione e Liberazione). Vale e deve valere allo stesso modo per tutti.

4. La legge è uguale per tutti

L’ultima riflessione ci porta a un’ulteriore considerazione: la Costituzione è universalista, non è comunitarista. A prenderla sul serio, significa eliminare privilegi e discriminazioni. Significa garantire pari opportunità per tutti, e far comprendere a tutti che dispongono effettivamente degli stessi diritti. Lo facciamo? Non mi pare. C’è un enorme lavoro da svolgere, e non soltanto nei confronti dei musulmani (come ben mostrano gli obiettivi Uaar). La legislazione lombarda anti-moschee o le ordinanze anti-kebab sono i più lampanti esempi di strade sbagliate.

Volendo invece individuare politiche positive: perché non avviare un massiccio investimento in politiche di inclusione scolastica e di borse di studio? E perché non approvare in tempi rapidi una ius culturae davvero basata su un percorso formativo laico e orientato al rispetto dei principi descritti in precedenza?

5. Traduciamo in pratica i nostri migliori valori

L’Oriente islamico vanta una storia un po’ più presentabile dell’Occidente cristiano, almeno fino al Seicento. Poi le parti si ribaltarono, e da allora la distanza non ha fatto che ampliarsi. Nel 1744 nacque in Arabia il primo stato saudita, nel 1750 fu pubblicato in Francia il prospetto dell’Encyclopédie. Da una parte cominciò a diffondersi il wahhabismo, dall’altra l’illuminismo. Due sistemi di pensiero letteralmente agli antipodi. Il primo svolge oggi un’influenza preponderante (ma fortunatamente non totale) sul mondo islamico, pur composto da un 75% di non arabi; il secondo svolge oggi un’influenza preponderante (ma ancora largamente insufficiente) sull’Occidente.

Se ne dovrebbero ricordare, i nostri governanti, quando si recano in visita in Arabia e, anziché far valere i nostri valori almeno quanto i sauditi fanno valere i loro, si mostrano più interessati ai Rolex. L’islam è un problema per l’Occidente così come i valori occidentali possono rappresentare un problema per il mondo islamico: tutto sta a quali valori si vogliono mettere in gioco. I nostri stessi Stati sono i primi ad attuare in maniera discutibile i valori costituzionalmente sanciti. Senza dimenticare che libertà ed uguaglianza sono la premessa indispensabile della fraternità.

Ma c’è un altro valore a cui si fa troppo poco ricorso: il buon uso della ragione. E non soltanto da parte delle istituzioni. Con eccessiva frequenza, di fronte alle evidenze, chiudiamo gli occhi per partito preso (qualunque partito preso) e non abbiamo il coraggio di rimetterci in discussione, anche quando è palese che stiamo sbagliando qualcosa. Se non siamo in grado di metterci in discussione non possiamo però pretendere che altri lo facciano. Dobbiamo affrontare un problema rilevante, ma per risolverlo dobbiamo avvalerci di ciò che abbiamo di meglio.

I musulmani non devono essere espulsi: è stato già fatto e con successo, ed è una delle pagine più neredelle cosiddette “radici cristiane”. Non devono essere assimilati. Non devono essere rinchiusi in ghetti. Devono saper e poter convivere con noi in un quadro normativo valido allo stesso modo per tutti. I musulmani hanno soprattutto da guadagnarci. Non devono restare a casa loro. Devono sentirsi anch’essi a casa loro all’interno della casa di tutti.

Raffaele Carcano




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